Duribanchi / Dopo una menzogna, serve buona memoria

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Mercoledì 22 Febbraio 2023

 

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Nel nostro paese la “rivolta” è sempre stata scambiata da “rivoluzione”. In realtà come scrisse Italo Calvino: “I rivoluzionari sono più formalisti dei conservatori”. Vale a dire che la rivoluzione è una strada lastricata di cactus.

Andrea Bosco

In una piece di Pierre Corneille, “Il bugiardo”, si recita che “dopo aver mentito, serve buona memoria”. E' un uomo bugiardo Silvio Berlusconi? Non spetta a me dirlo. E non saprei dire se la sua memoria sia brillante o offuscata. Certamente Berlusconi è uno che tende a volere la botte piena e la moglie ubriaca. Pur condannando l'aggressione russa all'Ucraina, non ha mai detto una parola ostile nei confronti di Putin. Il dittatore russo è un suo amico. Con lui a Natale, si scambia regali: vodka ad Arcore, lambrusco a Mosca.

Nessuno ha mai dimenticato la stagione nella quale, per oltre una settimana Berlusconi sparì dai radar ospite nella dacia di Putin. Nessuno gli ha mai chiesto cosa in quella settimana abbia fatto con Putin. E' una amicizia solida: a prova di bomba. Anzi di bombe. Recentemente Berlusconi (violando il silenzio elettorale durante il voto per le Regionali) ha spiegato di essere “per la pace” (come tutti), di auspicare un “piano Marshall di ricostruzione per l'Ucraina” (come molti), di essere favorevole alla “via diplomatica” (come alcuni), ma anche che “quel signore” (Zelenky, NdR) “va dissuaso dal fare la guerra”. Pensiero di pochi nel mondo occidentale. Ma di tanti in Italia, dove le simpatie filo russe sono in aumento. A causa delle parole di Berlusconi, il presidente del PPE (Partito Popolare Europeo) Weber si è imbufalito al punto da mettere in discussione la Conferenza prevista dal Gruppo, tra qualche mese, a Napoli per discutere proprio di Ucraina, Russia e magari anche di pace: cancellata.

A parte la Croazia che si era detta contraria ad annullare la manifestazione (con la Lituania che viceversa avrebbe voluto una presa di posizione più ferma) numerosi paesi, tra i quali quelli Baltici, la Polonia e l'Irlanda, hanno spiegato a Manfred Weber che Berlusconi l'aveva fatta per l'ennesima volta “fuori dal vaso” e che non sarebbero intervenuti sul palco di Napoli accanto a un “amico” di Putin. Ci ha pensato Antonio Tajani, storico “pompiere” di Forza Italia, nonché attuale ministro degli Esteri, a ricucire una situazione diventata esplosiva. Ricordando l'appoggio incondizionato di Forza Italia alla NATO, all'Alleanza Atlantica, alla politica Europea in favore dell'Ucraina, al via libera dato in Parlamento all'invio di armi al governo di Kiev. “Berlusconi è Forza Italia” ha rammentato Fra' Tajani a Weber. Che sembra lo abbia rassicurato sulla possibilità di “ricucire”.

Ipotizzare che Berlusconi si “silenzi” è come pensare di mandare presto un uomo su Saturno. Niente piace di più a Berlusconi che stare in prima pagina. Un alieno arrivando da Marte, guardando uno dei tg di Mediaset avrebbe la netta sensazione che il presidente del consiglio fosse ancora lui: Silvio. Ma il problema è verosimilmente un altro. Come fa Weber che si dice “amico di Berlusconi” a continuare ad esserlo considerato che il massimo del dissenso espresso dal Cavaliere nei confronti di Putin (vado a memoria) si è limitato a un “mi ha deluso”? Berlusconi vorrebbe arrivare alla pace: come tutti i sani di mente. Ma in che modo? Lasciando che Putin si prenda mezza Ucraina, dopo essersi preso in passato la Crimea e prima ancora (di fatto) la Georgia?

Le provocazioni russe nei cieli della Moldavia, lungo i confini della Polonia e nel Mar Baltico nei confronti dei paesi che sul quel mare si affacciano sono ordinaria amministrazione. Tutto fa pensare che il disegno “zarista” di Putin non contempli il tipo di pace che sogna Berlusconi. Probabilmente non ne contempla alcuna. Putin legge i giornali occidentali. E sa che l'ONU ha emesso una “taglia” sul suo paese per “crimini di guerra”. Che il mondo (che non sta con Putin) intende “incassare”. Nonostante ci abbia ripetutamente provato, neppure il Papa è riuscito, finora, ad avviare un percorso di pace.

Nel suo discorso alla Nazione, Putin non ha lasciato margini per una eventuale trattativa. “Siamo stati aggrediti dalla NATO. Siamo intervenuti per liberare l'Ucraina dai nazisti. Vinceremo: nessuno ci piegherà”. Menzogne e propaganda. La cosa più repellente che dovrebbe portare l’occidente a riflettere è stato quel Kirill, osceno prete con paramenti, in prima fila a testimoniare la valenza mistica delle mire di Putin. L'ex KGB, sodale di Putin che vive come un pascià e invita il popolo alla guerra santa e al martirio. La cosa più preoccupante è questa: la valenza integralista assunta dalla Russia. Alla faccia di quanti, fino a qualche mese fa, scrivevano che “la Russia è Europa”.

Un anno fa, il 24 febbraio, iniziava la cosiddetta “operazione speciale” russa, diventata recentemente “operazione anti terrorismo”. Le parole sono pietre (prima o poi anche Berlusconi dovrebbe convincersene): Putin reputa gli ucraini terroristi. E vuole cancellare (carta canta) il “decadente sistema occidentale”. Lo dice lui, lo dice il suo patriarca Kirill, lo dicono i suoi ministri. Si può fare la pace con uno che immagina di “distruggere” l'Occidente e il suo stile di vita? Prima o dopo si dovrà avviare un processo di pace con la Russia. Non con Putin. Con Putin la cosa è impensabile.

Stanno uscendo molti libri sull'Ucraina, sulla guerra, sulla Russia. Ha 101 anni Edgar Morin. Ma è lucido. Ne ho un ricordo vivissimo, avendolo intervistato più volte: in Italia, ma soprattutto a Parigi, nella sua bellissima casa per una trasmissione (“Il Circolo delle 12” su RAI-3 curata da un collega, Roberto Costa, che ho avuto in vita, caro amico) parlando di televisione e dei suoi devastanti effetti sulla società. Raffaello Cortina ha appena pubblicato un suo saggio sulle guerre moderne. Saggio di cui ha dato ampio conto la Lettura del Corriere della Sera. Intervistato da Nuccio Ordine, ha detto tra l'altro Morin: “La menzogna è uno degli aspetti più odiosi della propaganda bellica. Attribuire al nemico i propri crimini, ad esempio, è la maniera più disgustosa per occultare la verità”. Fa numerosi esempi, Morin, accaduti a varie latitudini e in vari periodi storici. L'attualità, sul tema, incombe.

Ma in Italia certi argomenti sono stati talmente manipolati che i margini per poter tornate ad essere un paese (quasi) normale sono esigui. Vale la conflittualità permanente. Il discredito dell'avversario. La menzogna elevata a sistema di contrapposizione politica. L'Italia di De Alcide De Gasperi era un paese che viveva il “boom economico”. Un paese nel quale la lira veniva premiata come miglior moneta del Continente. Certo era un paese con carenze e difetti. La Chiesa pesava sulla coscienza dei cittadini. Non esisteva il divorzio. Nessuna tutela sulla gravidanza delle donne. La sperequazione sociale, specie nelle regioni rurali del Sud, come del Nord (il Veneto non era ancora il Nord-Est con miriadi di fabbriche che ne avrebbero decretato il benessere e la crescita) era forte. Dal Sud del paese si migrava al Nord o all'estero. A Milano ignobili cartelli ammonivano che non si affittava “ai meridionali”. Ma era un paese che aveva una prospettiva. Con una scuola “sana”. Con valori famigliari. Con il rispetto per gli anziani e in genere per qualsiasi tipo di autorità.

Non mancavano gli scandali privati e pubblici. I diritti civili venivano “oscurati” da un endemico bigottismo. I sindacati non avevano la forza che con anni di lotte avrebbero ottenuta. Ma c'era il “sindacato”. Non l'attuale alveare di sigle, capetti e capi che rendono ingestibile persino la protesta. Si lavorava e si risparmiava. Certo, c'erano anche i Sindona. Ma persino la mafia aveva un'etica (se così si può dire di una associazione malavitosa) diversa da quella attuale. Vuole la vulgata che tutto sia cambiato nel 1968, con l'autunno caldo e la rivoluzione giovanile, con il movimento hippy e le derive libertarie: le femministe, il sesso libero, il rifiuto della guerra, le droghe da consumare. Ma tutto questo non esplose improvvisamente.

Il paese costruito nel dopoguerra era fragile, frutto di compromessi e di “conti” mai regolati. Il paese era stato fascista. C'erano stati gli “anni del consenso” prima della guerra. Nonostante le violenze, lo squadrismo, i manganelli e l'olio di ricino, il confino, la dittatura, l'omicidio Matteotti, gli italiani erano stati “fascisti”. E fu Togliatti segretario del PCI e ministro di Grazia e Giustizia della neonata Repubblica a deliberare il “condono” per quanti si erano macchiati di collaborazionismo, durante il Ventennio. Unico modo per cercare di pacificare il Paese.

Più o meno la maggior parte degli industriali, della borghesia e dei latifondisti avevano sostenuto il Fascismo. Mussolini godeva di corpose simpatie anche al di là del Tevere dove si temeva l'avanzata dei comunisti. C'era stata la Rivoluzione d'Ottobre in Russia, a lungo vissuta (anche nelle sfere ecclesiastiche), come un “virus”. Gli americani imposero una pace che aveva il biglietto da visita del Piano Marshall. Ma una parte del paese, quella il cui cuore batteva ad oriente, la visse come un tradimento. La Rivoluzione sognata e mai realizzata. In un paese nel quale la “rivolta” nel corso dei secoli era sempre stata scambiata da “rivoluzione”. In realtà come ne “Il barone rampante” scrive Italo Calvino: “I rivoluzionari sono più formalisti dei conservatori”. Vale a dire che la rivoluzione è una strada lastricata di cactus.

Quasi sempre dopo una rivoluzione arriva una restaurazione. Spesso la rivoluzione sfocia nella dittatura. Ne era consapevole quel gigante del pensiero liberale che risponde al nome di Tocqueville che analizzando l'ancienne regime e la rivoluzione, annota: “Le grandi rivoluzioni riuscite, facendo scomparire le cause che le avevano prodotte, diventano così incomprensibili a causa del loro stesso successo”. In Italia, la combinazione catto-comunista che ha mitridatizzato la politica, la società, la scuola, la famiglia, l'editoria, alla fine è sfuggita di mano a chi per decenni ha predicato contro il luteranesimo economico, etico e sociale. Alla fine, alla costante ricerca del “progressismo” la società ha prodotto un populismo sconfinante nell'illegalità. Un indottrinamento che non ha portato ad alcun riformismo. “Nè Cristo, né Marx” auspicava in un celebre saggio un filosofo francese, che credeva nella società social-liberale.

L' Italia è l'eterno paese dei don Abbondio che mandano in poche righe alle due del mattino al Festival di Sanremo il discorso di Zelensky, coprendosi di vergogna rispetto al Festival Cinematografico di Berlino che , in videoconferenza, il presidente ucraino ha ospitato in apertura della manifestazione, offrendogli il massimo della visibilità. E' una Italia codarda quella continua a criticare Fedez e Rosa Chemical per il bacio sul palco di Sanremo, invece di indignarsi per la simulazione di un atto sessuale (con relativo simulato orgasmo) dei due nella platea dell'Ariston. E' una Italia vile quella che non chiede conto a Giuseppe Conte e al suo ex governo, della sciagurata gestione del superbonus che potrebbe aprire nei già disastrati conti pubblici una voragine miliardaria.

Oggi tutti “protestano”. Ma quando Conte emanò quel provvedimento nessuno gli contestò la follia di un dispositivo che non solo rimborsava del 100% chi lo attuava. Ma che addirittura offriva in surplus di un altro 10%. Gira in rete un tormentone sull'ex presidente del consiglio dei 5 Stelle: “Gratuitamente”. L'idea populista di uno stato che dovrebbe provvedere ad ogni bisogno. Oggi in Italia governa la Destra. Che peraltro dovrebbe augurarsi che la Sinistra non imploda nelle sue mille contraddizioni: slabbrata in una visione preistorica della società. Se il Pd dovesse implodere i 5 Stelle diventerebbero l'unica opposizione nel Paese. Con conseguenze facilmente intuibili. Rivendicazioni anche condivisibili, quelle grilline, che non possono tuttavia trovare una corretta applicazione nel mondo reale. Il leader (appannato) dei 5 Stelle, Beppe Grillo, propone un reddito universale a 1500 euro al mese a cittadino. Con quale risorse? Tassando (e ci potrebbe anche stare) e “diminuendo le ore lavorative”. Una idea insensata di progresso.

La “ricerca della felicità” attraverso l'inoperosità manuale che tragicamente si trasformerebbe in inoperosità intellettuale. Aldo Schiavone ha pubblicato per Einaudi un piccolo saggio intitolato “Sinistra”. Nel quale auspica una rottura “radicale” per il pensiero progressista. Con al centro una nuova “eguaglianza”, svincolata “dalle rovine del socialismo” e guidata non solo dai mercati e dalla tecnologia, ma da un modello universale di cittadinanza che vada oltre gli Stati. Con la solita, però, inevasa domanda: con quali risorse? E “con quale tempistica”? Perché le necessità (alimentazione, bisogni, clima, energia, lavoro) poi incombono. E non possono “attendere”. In tutte queste ricette, law & order sono scomparsi dal dibattito. Come se un tasso di illegalità fosse ormai fisiologico e insopprimibile per la società.

Pillole. Berlusconi è stato assolto nel processo Ruby Ter. L'anomalia più grande consiste nel fatto che il leader di Forza Italia sia stato processato nel corso della sua vita per 126 volte e che per ben 125 sia risultato assolto, non perseguibile, prescritto. L'anomalia meno visibile è che il processo sia finito nel nulla per una cattiva gestione del medesimo da parte di chi lo aveva iniziato anni prima. L'anomalia “etica” è che le “testimoni” (che forse hanno mentito o forse no) Berlusconi comunque (è accertato) le abbia continuate a pagare. L'anomalia non archiviabile è quella di un Parlamento che votò a maggioranza che la minorenne (all'epoca) marocchina Ruby rubacuori fosse nella convinzione di Silvio Berlusconi “la nipote (egiziana) del presidente Mubarak”. Macroscopica stronzata che resterà per sempre agli atti di un Parlamento screditato.

Poi che Berlusconi abbia il diritto di fare a casa propria il “drago” (come scrisse l'ex moglie Veronica) con fanciulle bisognose di affetto (e di denaro?), è fuori discussione: lo ha. E' la valutazione politica, piuttosto (fossero state quelle cene “eleganti” o depravate), che non può recedere. Berlusconi avrà anche portato USA e URSS a confrontarsi a Pratica di Mare, ma nel mondo resterà per sempre (purtroppo per lui e per il Paese) “Mister Bunga Bunga”. L'anomalia penosa è la richiesta di Forza Italia di istituire una (inutile verosimilmente) commissione d'inchiesta per indagare sulla “persecuzione” di Berlusconi. Fatica che i parlamentari dovrebbero viceversa mettere a disposizione del ministro Nordio per consentirgli una vera riforma della giustizia. In modo da evitare, ad esempio, che due conclamati assassini rifiutino di andare in aula (facendo slittare il processo a loro carico) in quanto impossibilitati (soffrendo di presunta claustrofobia) a salire su un “cellulare”.

E' un mondo che non si indigna per vicende come questa, ma che ha intessuto chilometri di lana caprina per polemizzare contro la presenza di Paolo Conte, sublime artista, al teatro alla Scala.

Ma questa è la Milano di Beppe Sala. Che propone di intitolare uno spazio cittadino al Movimento LGTB (perché no, in fondo?) ma che non ha mai trovato una via, un vicolo, una aiuola (non parliamo di un impianto sportivo) da dedicare a Cesare Rubini o a Ottavio Missoni, eccellenze nello sport e nella moda: uomini che hanno contribuito alla grandezza di Milano. O a Gaetano Afeltra, fantastico giornalista scrittore che da Amalfi a Milano trovò la sua grandezza. L'elenco sarebbe lungo. E probabilmente troppo impegnativo per i consiglieri di Sala che vorrebbero appaltare al movimento Arcobaleno una fetta di Piazzale Lotto. Proprio accanto a quel Palalido che Milano non volle intitolare (nonostante le migliaia di firme ricevute da un mio articolo sul Corriere della Sera e la promessa dell'allora sindaco Letizia Moratti) al “Principe” condottiero delle mitologiche “scarpette rosse” dell'Olimpia Basket.

L'ultima, inaudita, il cupio dissolvi che ha preso le menti bacate di quanti pretendono di fare cultura arriva dal mondo anglosassone su richiesta dei talebani del sensitivity reader di Inclusive Minds, agenzia specializzata in “inclusione e accessibilità nella letteratura per bambini”. Via le parole “grasso”, ma anche “piccolo” o “nano” per non offendere la sensibilità dei grassi, dei piccoli o dei nani. E quindi l'editore che ha in mano i diritti di Roald Dahl, popolare scrittore per l'infanzia scomparso nel 1990, d'accordo con i “sensibilissimi” suoi eredi ha deciso di “aggiornare” i testi di Dahl, purgandoli. Ergo la celebre “Fabbrica di cioccolato” capolavoro del 1964 che ha ispirato ben due film, alla voce “enormemente grasso” è stata aggiornata in “enorme”. Niente più “doppio mento”, ma via libera a “naso e denti storti”. Perché i talebani non hanno una logica: gli basta proibire. E finché troveranno pavide persone come i dirigenti di Puffin Books continueranno a fare “carne di porco” di tutto. Spiegava Giacomo Leopardi nei “Pensieri” (vado a tentoni nei miei ricordi liceali): “Le persone non sono ridicole se non quando vogliono sembrare o essere ciò che non sono”. E “loro”, i talebani da salotto, vogliono sembrare “moderni”. E sono solo patetici.

Si fa presto a dire western. Non basta averne visti molti per essere in grado di realizzarne uno. Il “Django” di Francesca Comencini è lontanissimo parente di quelli di Sergio Corbucci e di Quentin Tarantino. E non solo perché quello di Comencini è un western dove i protagonisti parlano come newyorkesi, un milanesi o un parigini del 2023. Ma perché è un western che si addentra nella fluidità. L'omosessualità maschile (nel genere), era già stata sdoganata da Cecil De Mille ne “La conquista del West”. Con quel Gary Cooper nei panni di Wild Bill Hickok che si pulisce la bocca dopo un bacio di Jane Arthur-Calamity Jane. Un western buio e crepuscolare, interrazziale e psicoanalitico. L'ambientazione in un vulcano spento della Romania (una buca nella quale nessuno nel West avrebbe costruito un villaggio esponendolo alle incursioni dall'alto dei nemici) con case-capanne che richiamano quelle di Apocalypse Now, è temeraria.

Discutibili i costumi: metà banalmente approcciati in stile “spaghetti western” e metà in Ovest revisionista. Sbagliati, a parte quelli del protagonista e della sua acerrima rivale Elizabeth (Noomi Rapace, proprietaria terriera, assassina e razzista che vuole distruggere la comunità di poveracci di colore chiamata New Babylon), sono i volti. La sceneggiatura di Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli è fumettistica. Neppure nel West gli uomini giravano da mattina a sera con la pistola nel cinturone: ogni tanto l'appendevano. Figuriamoci le donne, per quanto battagliere: Sarah, la figlia di Django, non se ne separa mai.

Mi spiace per l 'ottima valutazione che ne ha fatto Aldo Grasso (che sulle questioni televisive è una sorta di affidabile “cassazione”), ma dissento. Il film è spezzettato, gli attori afro sembrano usciti da un bar di Camden Town non da un “buco” nel Texas. E' probabile che Comencini abbia letto la storia di Hole in the Wall, covo di banditi dalle parti del Wyoming: il celebre Mucchio Selvaggio protagonista di tante pellicole hollywoodiane.

La storia vive di contorni contemporanei: dal femminismo, all'inclusività (ma nel West posti del genere, erano per desperados, non per reietti in cerca di redenzione), dalla religione, alla fluidità sessuale. Troppe ciliege nello stesso cesto. La narrazione risulta inevitabilmente velleitaria per quanto procede in modo frastagliato. Il western ha quasi sempre affrontato un tema alla volta. Magari scomodo (Kirk Douglas e il tema dell'incesto in “L'occhio caldo del cielo”), magari alternativo (sempre Kirk Douglas, cow boy che rifiuta in “Solo sotto le stelle” la civiltà e finisce travolto da un enorme truk che trasporta cessi mentre sta attraversando a cavallo di notte una autostrada). Magari quello dell'omosessualità come Henry Fonda e Antony Quin in “Ultima notte a Warlock”. Magari quello dello sterminio di nativi in “Soldato Blu”. Magari quello del “gender” (Joan Crawford in “Jonny Guitar”). Ma tutto mescolato, sia pure in una serie di dieci episodi, diventa problematico. Il cinema è finzione e illusione, ma guai a coltivare troppe pretese. Come insegna il flop colossale de “I cancelli del cielo”.

Sono sbagliate le armi in “Django”. Siamo in un ipotetico 1872, zona imprecisata del Texas. Ma i protagonisti sparano per lo più con Colt Single Action Army revolver messo sul mercato solo nel 1873: un anno dopo. In ogni caso, reduce dalla schiavitù e dalla guerra di Secessione, una comunità povera come quella descritta nello sceneggiato SKY è più probabile si difendesse con Colt Walker del 1847 (il revolver che usa Clint Eastwood ne “Il texano dagli occhi di ghiaccio”), magari con qualche (ma erano costosi anche durante la guerra di Secessione quando furono dati in dotazione ai nordisti) fucile a ripetizione Henry, l'antesignano del Winchester. Infine la “scoperta del petrolio” (a New Babylon ad un certo momento portano in banca una fialetta di “oro nero” per farsi finanziare gli scavi) che la storia però assegna al 1901 nel sud est del Texas con la nascita della Texas Co. A Beaumont.

Per fare un western servono competenze che in Francesca Comencini sembrano fragili. Poi certamente in un film le licenze, anche storiche, sono all'ordine del giorno. Ma un minimo di precisione non guasterebbe. Oggi i fumetti della Bonelli sono dei gioielli nei testi e nel disegno, rispetto agli inizi dell'avventura bonelliana, quando gli unici riferimenti (non sempre precisi) erano i film di Hollywood. Visto che non esistevano pubblicazioni (in Italia) sulle quali documentarsi ed informarsi. Le fece arrivare dagli USA Rino Albertarelli, fantastico illustratore capace di realizzare la bellissima serie dei “Protagonisti”. Fumetti “storici” dedicati a storici personaggi della Frontiera. Improbabili nel film della Comencini anche gli occhiali da sole di Noomi Rapace. I primi veri occhiali da sole furono inventati da un italiano agli inizi del Novecento per i piloti.

Ma non è questo il punto: nel film di Tarantino – ad esempio – ci sono millanta cazzate, anche bibliche. Una sono gli occhiali del protagonista, stilizzati alla moda e impossibili in un West del 1858. Il film di Corbucci proponeva incappucciati con stoffa rossa, parodia del Clan vero che i cappucci li ha sempre avuti bianchi. Gli occhiali da sole dovrebbero rendere Rapace “cattiva”. Ma la presentano piuttosto come una “jettatrice” dal profumo pirandelliano: grottesca. Ci sono anche i nativi nel film di Comencini: Comanche, rappresentati come spietati tagliagole. Ma a merito della Comencini, va detto che sono anche gli unici, in “Django”, vestiti secondo la tradizione dei guerrieri delle pianure. Peccato: il western, che negli ultimi tempi ha avuto qualche sussulto, non può permettersi di sprecare le occasioni. Gira in contemporanea sulle reti collegate a SKY assieme a “Django” anche un bel documentario su Sergio Leone. Uno che le occasioni (pur costruendo western particolarissimi, girati per lo più in Spagna, in Almeria), non le sprecò.