I sentieri di Cimbricus / I cinquanta anni della meta piu' bella

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Venerdì 27 Gennaio 2023

 

gareth 

C’è chi sostiene che il tempo possa cambiare le immagini, mutarne il nitore; e che i nostalgici, come tutti vecchi, esagerino in questa loro pervicace resistenza, magnificando oltre misura quel che vissero in parentesi di grazia abbagliante, di cuori pulsanti. 

Giorgio Cimbrico 

Se l’atletica ha come caposaldi la raffica di record di Jesse Owens ad Ann Arbor, il miglio di Roger Bannister, il volo di Bob Beamon, e il calcio le invenzioni del giovane Pelé e i colpi di genio (anche quello truffaldino …) di Diego Armando Maradona, il rugby celebra oggi in 50° anniversario della meta più bella, mai annebbiata dal tempo trascorso o dai mutamenti che il gioco ha attraversato e subito.  

L’arte ha i suoi quadro storici: la Ronda di Notte di Rembrandt, la Resa di Breda di Velazquez, la Sepoltura del Conte di Orgaz di El Greco: grandi tele che, attraverso un episodio, un momento, raccontano un ambiente, una civiltà, una società. Anche lo sport possiede un patrimonio simile: Roger Bannister che supera le colonne d’Ercole dei quatto minuti nel miglio, Livio Berruti, solitario Orazio azzurro, vittorioso contro i tre Curiazi americani; George Foreman che frana lentamente al suolo, come un colosso di Rodi, nella notte congolese di Alì che non lo uccide ma lo abbatte. 

Il rugby ha il lungo momento di Gareth Edwards, un breve film che nessuno prova noia a rivedere. Fresco e vibrante cinquant’anni dopo, quando eravamo tutti molto diversi. Era diverso anche il gioco e chi lo interpretava. 

In un anno tempestato di anniversari – i 200° della nascita più o meno leggendaria del gioco può essere l’architrave su cui costruire – sarà mezzo secolo da quando Gareth segnò THE TRY, la meta, scritta con tutte e tre – o quattro, a seconda della lingua usata – le lettere maiuscole. In questi anni di comunicazione sempre più globale e martellante, di dibattiti che intercorrono fervidi, talvolta polemici, spesso acrimoniosi, tra perfetti sconosciuti, qualcuno ha provato a sostenere che ne siano state segnate di più belle, citando una quasi trentennale impresa acquatica di Serge Blanco o, pescando in un repertorio più recente, almeno una della lunga collana offerta da Brian Habana detto il Ghepardo. Ma nessuno ha mai osato negare la suprema bellezza di quell’intuizione. 

27 gennaio 1973, Arms Park di Cardiff, giornata grigia e squadre con pochi colori – gli All Blacks sono tutti neri, i Barbarians sono a rigone bianche e nere, con una sigla intrecciata che pare un capolavoro in ferro battuto, proprio come le cancellate dello stadio – e così le vecchie riprese sono perfette. Per chi non l’ha mai vista o per chi la conosce a memoria, senza mai provare la nausea, sufficiente cercare su Google alla voce Gareth Edwards o Barbarians-All Blacks o la Meta più Bella della Storia. 

Considerate le premesse – due abbozzi di attacco dei neozelandesi – l’azione dura 55”. Sul calcio in avanti, raccoglie la palla Phil Bennett (uscito di scena pochi mesi fa) che inventa da fermo un vortice di passi incrociati facendo fuori tre Neri. Da quel momento, partendo dalla linea dei 22 metri del Barbarians, la palla cambia padrone sette volte: “John Williams, Bryan Williams – la voce del commentatore, Cliff Morgan, comincia a incrinarsi – Pullin, Tom David, Quinnell, Gareth Edwards, questo è Gareth Edwards e se qualcuno avesse voluto scrivere questa storia, nessuno avrebbe potuto crederci”. Perchè Gareth si materializza dal nulla e grida una cosa tipo “Dalla a me”. Quinnell gliela dà e lui trova la breccia profonda sull’ala, dalla parte sinistra di chi attacca, e quando lo placcano, lui ha già messo giù l’ovale e ha segnato la META. Il risultato finale – Barbarians-All Blacks 23-11 – è un accessorio. 

Quando si trattò di scegliere i 100 Grandi Momenti dello Sport Britannico, la Meta ottenne il 20 per cento dei suffragi. E così, fuor di metafora, è diventata un monumento. Nel senso che Gareth è là, nel bronzo, al St David Mall, cuore dello shopping a Cardiff. A seconda della stagione, intorno ci sono asfodeli o ciclamini. Basettuto, ha afferrato la palla, ha dato un’occhiata in giro e sta aprendo il gioco. 

Altri record, altre imprese: Llandegfedd, riserva naturale vicina a Pontypool, il luogo della pesca miracolosa, del persico che lui, nativo di Gwaun Ce Gurwen (c’è qualcosa di più fiabesco dei nomi gallesi?) prende all’amo. “Bello grosso: sarà il caso di pesarlo”. Lo pesano: 45 libbre e sei once, oltre i 15 chili, record britannico. Resisterà due anni, dal ’90 al ‘92. Quasi vent’anni prima, nel ’72, allarga la collezione di maglie indossando quella della RAF. Non era in servizio con la Royal Air Force, e così viene da pensare che gli avieri si siano comportati come si faceva in antichi campionati universitari, quando venivano iscritti sotto falso nome giocatori di basket e lanciatori di martello. “Ehi, hai visto il mediano di mischia degli avieri? E’ proprio forte”. Già. 

Gareth era forte in tutte le cose che si metteva in testa di provare: poteva fare lo sprinter e scendere in pista ai Giochi del Commonwealth del ’70 o il ginnasta, dice chi lo ricorda ragazzo. A 16 anni firma per lo Swansea, quello che gioca con la palla rotonda, il club che ha dato alla luce John Charles, il gigante buono dalla voce profonda e dalla sete insaziabile. Gareth è figlio di un minatore, per un attimo pensa che le sterline del calcio possano far comodo, ma, al contrario di Ryan Giggs e di Gareth Bale, ci ripensa e non tradisce l’amore che abita alle radici.

Da Swansea tonda a Cardiff ovale, per non muoversi più: 12 stagioni, 96 partite, 67 mete. Ha giocato per il Cardiff College, per la rappresentativa gallese delle scuole superiori, per il Cardiff Rfc, per l’East Wales, per i Wolfhounds, per l’Irish President XV, per i Lions (vittoria nella serie del ’71 in Nuova Zelanda e pareggio nel tour del ’74 in Sudafrica), per lo World XV, per la RAF, per la selezione anglo-gallese che nel 1981 celebrò il centenario della nascita della RFU, per il Galles a 7, per i Barbarians e, naturalmente, per il Galles: 52 partite, 20 mete, sette 5 Nazioni e tre Grandi Slam. 

Gareth racconta: “1971, torniamo dalla Nuova Zelanda, abbiamo vinto la serie. A Heathrow c’è un casino infernale. E’ arrivata gente da tutte le parti. Sento qualcuno che dice: sembra il giorno del ritorno dei Beatles dal loro primo tour in America. La confusione non mi piace: riesco a sgattaiolare, vado a Londra, prendo un treno regionale per il Galles, scendo alla stazione più vicina a casa e trovò tutto imbandito. Sì, tavoli per la strada, gente che mangia, beve, festeggia, così per 15 chilometri, che è quanto c’è dalla stazione a casa mia. Vogliono che mi fermi e vado avanti così, a tappe. Credo di averci messo più tempo di quanto non ne ha impiegato l’aereo a riportarci dalla Nuova Zelanda” … 

Un po’ di anni fa chiesero a Will Carling cosa combinerebbe Gareth nel rugby d’oggi. “Quello che ha fatto ai suoi tempi, il meglio. Aveva corsa, intuito, calcio. Tutto il repertorio, ci siamo capiti?”. Venne nominato miglior giocatore gallese della storia e nel ’98, quando il rugby decise di aprire la sua Hall of Fame, le porte furono spalancate per lui, per Barry John, il Principe che depose presto la corona, e per Jor Williams. 

Ha attentato alle coronarie delle due “voci” del rugby. Di Cliff Morgan abbiamo detto. A Bill McLaren toccò un’altra sua prodezza, questa volta contro la Scozia: mischia nella metà campo gallese, palla a Gareth che non apre, calcia rasoterra e va ad inseguire. “La prende, Edwards? La prende? L’ha presa”. La prese alla bandiera, andando a finire in una palude stigia di fango rossastro, i resti della pista per la corsa dei cani. “Vivere con modestia, perdere con leggerezza”, è il suo motto. A luglio Gareth ha tagliato il traguardo dei 75 anni. Quando segnò la META ne aveva 25.