Duribanchi / La fierezza e il coraggio del Re Leone

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Sabato 7 Gennaio 2023


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Sinisa, poi Pelè, poi Castano, infine Luca Vialli, in pochi giorni. Da quelle parti, Mario Sconcerti avrà il suo da fare per intervistarli tutti. In qualsiasi posto della foresta sia svanito il Re Leone, le sue gesta non saranno mai cancellate.

Andrea Bosco

Il Re Leone è sparito tra gli alberi. Nessuno sa dove veramente sia andato, come scriveva Vincenzo Monti, “il biondo imperator della foresta”. I cacciatori dalle lunghe lance che lo avevano inseguito, attorno al fuoco raccontano della sua fierezza. Gianluca Vialli ha combattuto contro la malattia. Ha perso, ma lottando come un Re guerriero. E' morto a 58 anni.

Ma il ricordo di tanti, amici, ex compagni di squadra –, anche Gianna Nannini, persino il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la lettera straziante resa pubblica dalla Sampdoria –, testimoniano che quelli come Vialli non muoiono.

Era un uomo che univa. In uno sport dove l'appartenenza ad una casacca, spesso, divide. Vialli è stato come Pelè, scomparso una settimana prima di lui: gli voleva bene il mondo. Una sera, ospite di Alex Bonan a SKY, Luca Vialli l'ho conosciuto. Stessa tavola con Paolo Rossi e Beppe Bergomi. Rossi con quella ironia che armonizzava le cose. Bergomi composto. Con quella faccia da bravo ragazzo che spinge i padri a fidarsi, quando viene chiesto loro il permesso di portare le figlie al ballo della scuola. Serata di Champion's.

Dopo il primo piatto, Gianlucaccio si alza da tavola, senza attendere i secondi: “Voglio vedere l'entrata delle squadre in campo” dice. Io continuo a cenare e a discutere con Bergomi e Rossi. Inizia la partita e Luca sul divano è uno spettacolo di partecipazione. Genuino, come quando aveva tanti capelli in testa e stupiva Emiliano Mondonico per le qualità che esibiva. Non c'era una squadra italiana sul campo. Vialli tifava “per il gioco”. Quel gioco che amava. Solo una sera: quella sera. Ma la certezza di aver conosciuto uomini speciali.

Cremonese, Sampdoria, Juventus e anche Chelsea, lui allenatore-giocatore a Londra in un ruolo, in quella stagione, impensabile per i parametri del calcio nostrano. In un quartiere che si stava sviluppando e che presto sarebbe diventato il più ambito della City. Gol e trionfi, delusioni e sconfitte. La sorte, così tiranna con Vialli, gli avrebbe concesso un ultimo successo da dirigente della Nazionale: l'Europeo a Wembley. La gioia immensa di Luca Vialli che abbraccia Roberto Mancini con il quale, quando erano “sbarbini”, cantava sulle note di Adriano Celentano (85 anni vissuti in mi settima): “Siamo la coppia più bella del mondo”.

La Sampdoria di Vialli e Mancini (ma anche di Jugovic, Cerezo, Lombardo, del roccioso Pietro, italiano di provincia dal cognome russo) giocò un football meraviglioso agli ordini di uno slavo filosofo che sapeva smorzare i toni spiritati della domenica. Quel Boskov che spiegava: “Rigore è quando arbitro fischia”. Li avrebbe voluti, quattro in una volta sola, Gianni Agnelli: Mancini, Vialli, Vierchowod e Moreno Mannini, terzino fluidificante. Li chiese al presidente gentiluomo Mantovani che gli oppose un cortese rifiuto: quelli erano i suoi “figli”. E Mantovani come tali li trattava. Alla fine a Torino arrivò Vialli. Poi Jugovic e poi, anziano ma ancora validissimo Vierchowod.

Nel 1991 la Sampdoria, la squadra con la maglia più bella del mondo, vinse lo scudetto. Squadra di amici che a fine allenamento giocava a basket (pare che Katanec fosse imbattibile) e che si mise alle spalle il Milan degli olandesi, l'Inter dei tedeschi, il Napoli di Maradona. Mancini “ispirava” e Vialli segnava. Anche se Gianlucaccio era solito dire scherzando che erano i suoi gol “impossibili” che facevano sembrare assist, i cross che il Mancio “buttava a casaccio in mezzo all'area avversaria”. Non si sono mai persi di vista Vialli e Mancini. Erano “fratelli” e si vedeva.

I Vialli erano di origine trentine. Luca fin da bambino, sul campo dell'oratorio Cristo Re, faceva gol. Non c'era verso di farlo giocare a centrocampo o in difesa. A capire che avrebbe potuto diventare un vero calciatore fu Franco Cristiani, il suo “primo maestro” che a scuola insegnava l'italiano e per passione lo allenava a calciare. Avrebbe raccontato Cristiani, scomparso nel 2021, che certi giocatori “capisci che hanno talento solo a vederli camminare”. Tra i Giovanissimi del Pizzighettone, nella Bassa Padana che da Cremona porta a Grumello che i latini chiamavano Grumus, terra di fruttati vini, Luca Vialli sarebbe cresciuto. Fino a diventare Stradivialli, come lo aveva soprannominato Giovanni Brera accostandolo a quel liutaio, Antonio Stradivari, capace di costruire preziosi violini di inarrivabile fattura.

Vialli che in un indimenticabile Juventus-Fiorentina vinto in rimonta con la pennellata finale di Alex Del Piero, segna due gol quando la gara è ancora aperta. Vialli che prende il pallone nella porta avversaria, se lo mette sotto al braccio e prima di posarlo nel cerchio di centrocampo invita a grandi gesti i compagni a “rientrare”. Ad andare dietro a lui: il capitano. Vialli e quell'umanissimo timore durante i rigori contro l'Ajax nella gara che consegnò la Champion's alla Juve. Confessò Vialli di non aver “guardato”, mentre l'ultimo penalty, quello decisivo calciato da Jugovic, finiva nel sacco. Vialli che da ragazzino tifava Inter. E che rivelò, da calciatore, di provare un forte piacere quando segnava alla squadra milanese.

Nel giorno del cordoglio, forse Andrea Agnelli si sarà pentito di non aver “riportato” Luca Vialli alla Juve con un ruolo dirigenziale. I tifosi lo desideravano. Vialli si è fatto amare: qualsiasi maglia abbia indossato. Forse quanti scrissero pagine infami su di lui accusandolo di “abuso di creatina” avranno in queste ore, indossato il cappuccio della vergogna. Non so quale cappello si calerà sul capo Arrigo Sacchi che “cassò” Vialli dalla lista dei convocati per il mondiale americano. Pare per una “fuga” notturna durante il ritiro di preparazione infrangendo le ferree regole imposte dall'allenatore che inventò la “diagonale”. Vialli e Baggio assieme. Forse quel mondiale avrebbe potuto avere un altro destino. Ha scritto Clarence Seedorf, indimenticabile centrocampista dell'Ajax, del Real Madrid, dell'Inter e del Milan, che “il Dio del calcio sta evidentemente organizzando la più memorabile delle partite”.

Sinisa, poi Pelè, poi Castano, infine Luca Vialli, in pochi giorni. Da quelle parti, Mario Sconcerti avrà il suo da fare per intervistarli tutti. In qualsiasi posto della foresta sia svanito il Re Leone, le sue gesta non saranno mai cancellate. Un affetto indescrivibile ha accompagnato la sua morte. Anche da chi lo aveva incrociato, occasionalmente, magari al supermercato. Vialli era Vialli ma non se la “tirava”.

E' stato, Gianlucaccio , un “eroe” moderno. Come il Cavaliere de “Il settimo sigillo” con la Morte ha giocato a scacchi. La Morte che conosce tutte le mosse e non può essere sconfitta. Ma Luca ha saputo, a lungo, eroicamente, tenerle testa. Perché, spiegava Romain Rolland, in fondo: “gli eroi sono uomini: che fanno, ciò che possono”