I sentieri di Cimbricus / Urlando e berciando che male ti fo'

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Lunedì 21 Novembre 2022

 

stadio ferraris 

Torno da un pomeriggio d’un giorno da cani grazie ad uno speaker eccitatore di popolo. Anzi, è proprio il caso di non tornarci e rievocare con rimpianto il tempo in cui esistevano lo stile, il buon giusto, la misura. Anche per gli speaker.

Giorgio Cimbrico

Grazie a quel che una volta era lo speaker – e oggi è un urlatore e un imbonitore sguaiato – ho passato al Ferraris il pomeriggio di un giorno da cani e non per i 63 punti e le nove mete, al passivo, dell’Italia contro gli Springboks. Che non ci fossero chance, era noto, ma così, … “Una dura punizione”, avrebbe commentato quel buonanima di Paolo Rosi. 

Questo perfetto rappresentante del mondo in cui siamo finiti non ha dato tregua nel prima, nel durante, nell’intervallo, a cose fatte, e se per un attimo non si udiva quella voce fintamente emozionata, carica di un’enfasi plastificata, arrivavano le ondate di quella roba che si chiama, credo, techno. Di musica si sono sentiti solo Nkosi Sikeleli iAfrika e l’Inno di Mameli. Urla inarticolate e unz unz: ecco la colonna sonora. Ne sono uscito provato. Invecchio, cosa volete. 

Il pubblico obbedisce agli ordini dell’urlatore e così “partecipa”: “gridate Italia, Italia”, ordina. “Non vi ho sentito: ancora, ancora”, e via di questo passo. Non è il caso di   ricorrere ad altre citazioni. E’ chiaro che su argomenti del genere andrebbero consultati sociologi e sarebbe bene andare a dare un’occhiata a testi su una comunicazione che plasma la massa e la rende sempre più disponibile. Diciamolo, obbediente. 

Poche ore dopo ho avuto la prova che tutto ormai funziona così: lo speaker (continuo a chiamarlo così, …) dei Masters di Tennis, ma ora bisogna dire Finals, usava gli stessi canoni: urla disumane, musica [sic!] assordante. Apro una piccola parentesi: perché accanto a Tsitsipas figurava la sigla Gre, a Djokovic Srb e nessuna indicazione di nazionalità era prevista per Medvedev e Rublyev? Un capolavoro di ipocrisia. Mi ha fatto ricordare quando l’ambasciatore britannico a La Paz venne oltraggiato e Vittoria, informata del fatto, chiese l’atlante, estrasse dal cestino da lavoro le forbici, ritagliò la Bolivia e sentenziò che da qual momento la Bolivia non esisteva più. Con la Russia il problema è un po’ più vasto. 

Non resta che tornare ai nostri eccitatori del popolo. Anzi, è proprio il caso di non tornarci e di rievocare con rimpianto il tempo in cui esistevano lo stile, il buon giusto, la misura. In un’età che non prevedeva tabelloni luminosi e comunicazioni immediate, si trattava di attendere il responso, il verdetto.

Quel 6 maggio 1954 venne per bocca dello speaker Norris McWhirter e servì ad alimentare un certo stereotipo di formalismo britannico, unito a un sottile amore per la suspence da propagare come un brivido sottile: “Signore e signori, questo è il risultato della gara numero 9, il Miglio: primo, il numero 41, Roger G. Bannister dell’Amateur Athletic Association e già studente dei college Exeter e Merton, con un tempo che rappresenta un nuovo record della pista e del meeting e che, dopo esser stato sottoposto a ratifica, sarà un nuovo record inglese, britannico, su suolo britannico, europeo, dell’Impero britannico e del mondo. Il tempo è 3’…”

Il crescente mormorio del pubblico coprì il numero dei secondi e dei decimi, disperse per un lungo attimo l’ufficialità di quel 3’59”4. “Tre” significava l’atterraggio nel mondo nuovo, il piede posato su un pianeta proibito. Poteva un uomo correre un miglio in meno di 4’? Poteva. E così la notizia uscì in prima pagina sul Times, su una colonna. Evitare l’esagerazione può essere la misura per tutte le cose. Altri tempi, senza isterie. Per di più finte.