I sentieri di Cimbricus / Leonardo e Daniele, gente di vera atletica

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Martedì 13 Settembre 2022

 

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Dal talento da esprimere del siepista friulano Feletto alla sfortuna del salentino Greco finito nella fossa di leoni che hanno azzannato uno dei più talenti più limpidi che sia stato concesso di vedere sulle nostre pedane.

Giorgio Cimbrico 

Leonardo Feletto ha il nome di un prosecco che ho bevuto più di una volta e infatti è di quelle parti. L’ho visto domenica, al meeting di Zagabria, star dietro un chilometro abbondante a Souffiane el Bakkali. Di Feletto non sapevo nulla. Ho notato che ha un gran fisico (sugli 1,90), che ha una buona tecnica sugli ostacoli, che, mosca bianca tendente all’albino, non appartiene a un corpo sportivo militare (Atletica Mogliano è il club) e che purtroppo ha già 27 anni.

Di più, che è laureato in ingegneria energetica, che lavora, che all’atletica concede quel che rimane del suo tempo, che ha un record personale non lontano da quello di Topi Raitanen, il finlandese campione d’Europa grazie all’incerta condotta di gara dei tre azzurri. Qualcuno ha usato un giro di parole più radicale: un titolo buttato nel cesso. 

Due giorni prima che Feletto assaggiasse la pista di Zagabria nella sua prima trasferta all’estero, Ahmed Abdelwahed è risultato positivo al Meldonium, farmaco che agisce sul funzionamento della pompa che abbiam o in petto ed entrato sulla scena del doping con Maria Sharapova, sospesa due anni dalla federazione internazionale. Abdelwahed nega di aver assunto la sostanza. 

Attendendo sviluppi e controanalisi, non resta che tornare su Feletto. Non è necessario essere un raffinato tecnico per capire che il giovanotto ha della stoffa. Resta da capire se vuole usarla per cucire un vestito degno delle antiche sartorie di Savile Row. Non ha più molto tempo a disposizione.  

MATRIMONI – Dopo quelli di Federica Pellegrini e di Gian Marco Tamberi –, e attendendo quello di Marcell Jacobs –, mi sono interessato di un’unione che non rientra nel giro del gossip: le nozze, venerdì 16, di Daniele Greco con una ragazza sua compaesana. Ho chiamato Daniele che può essere comodamente mio figlio e che è soprattutto un amico, così come il suo tecnico Raimondo Orsini, e abbiamo chiacchierato su temi dolorosi e che ora sono solo nostalgici.  

A volte ai giornalisti piace parlare degli Dei benigni: quelli che gli hanno prestato attenzione sono stati maligni. Lo hanno colpito e legato a una rupe come Prometeo, lo hanno tempestato di dardi come San Sebastiano. Greco era limpido, come tutti quelli che hanno una grazia strabiliante. 

Ricordi, flashback: Daniele parla su una panchina, nei giardini moscoviti attorno al vecchio Lenin: nell’aiola lì vicino c’è l’orsetto Misha, simbolo dei Giochi del 1980. Un infortunio lo ha appena fatto uscire di scena prima che il suo Mondiale iniziasse. E’ sereno: un anno prima era finito ai piedi del podio olimpico, la sera del bronzo di Fabrizio Donato e del capolavoro di David Rudisha. E’ un incidente di percorso che non crea crepe nel suo animo, nella sua fede profonda: pochi mesi prima, a Göteborg, era diventato campione europeo indoor rimbalzando a 17.70. E’ il periodo in cui, senza arroganza, senza plastificate sicurezze, dice: “quando farò 18 metri, …”. Non “se”. 

Torna in salute per i Mondiali indoor di Sopot, è il favorito ma rinuncia all’ultimo momento per un problema che non sembra grave. Il fulmine arriva in estate, al Letzigrund zurighese: prima che prendano il via le qualificazioni degli Europei cede il tendine d’Achille. Questa volta non c’è il tempo per parlare dello stato delle cose: lo caricano su un’auto che fa rotta verso Pavia per salvare il salvabile. 

Sono passati 8 anni, ora Daniele ne ha 33. Salta un metro e mezzo meno che nei suoi giorni felici, quel che sta capitando a Christian Taylor, più giovane di un anno, arrivato a 8 centimetri dal capolavoro di Jonathan Edwards, concepito all’Ullevi di Göteborg in una di quelle giornate di luce del Nord che si fa assoluta. Anche per lui lo spezzarsi del tendine battezzato con il nome del Pelide.  

“Un’operazione dopo l’altra, quattro, forse cinque. Non le ricordo tutte”, racconta Daniele, finito nella fossa di leoni che hanno azzannato uno dei più talenti più limpidi che sia stato concesso di vedere, di seguire in quei pochi tratti di strada che è riuscito a percorrere. Viene in mente la canzone di Bob Dylan su Rubin Carter detto Hurricane “che avrebbe potuto diventare campione del mondo”. Anche Daniele, di sicuro. Buone nozze e una vita felice.