Fatti&Misfatti / Il grande ribelle che non firmava autografi

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Lunedì 1° Agosto 2022

 

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“Gloria eterna per Bill Russell, cestista del mito e non soltanto per gli 11 anelli NBA come giocatore e anche come primo allenatore non bianco, uno per cui abbiamo scelto di non tifare mai per lo sport spettacolo californiano”.

Oscar Eleni

Pronto a litigare con la hostess che non accetta di vederci mangiare pallottoline di mascarpone, squisitezza agostana della cucina milanese, al posto del precotto servito su un aereo di dannati fra Oregon Asia ed Europa dove, fra patate e verdure, c’è anche una testa di serpente. Magari l’avranno trovata in qualche comizio estivo per il settembre del terrore che spetta ad un Paese dove si continua a non vedere, sentire, parlare, dove per un coraggioso che chiude la discoteca, impotente davanti a malvagità, maleducazione, ignoranza, ce ne sono dieci che urlano venghino, venghino, convinti che i buttafuori dall’occhio torvo terranno a bada chi sballa anche prima di ballare.

Serpenti a colazione in ogni notiziario, il tormento nei giorni in cui ci piacerebbe meditare senza dover dare ragione al geniale Marescotti, appena ritiratosi dalle scene, che, imprecando in romagnolo, come ha fatto interpretando il padre leghista che voleva negare la figlia a Zalone, ci ricorda che la vecchiaia non è brutta per gli acciacchi, ma perché dura poco.

Dura poco? Magari la falce avesse rubato solo fetenti in circolazione, ma questi sono i giorni dove uno splendido ribelle se ne è andato. Gloria eterna per Bill Russell, uomo di Monroe, cestista del mito e non soltanto per aver vinto 11 anelli NBA come giocatore e anche come primo allenatore non bianco, capo branco in un quintetto di tutti neri per i bostoniani celtici, uno per cui abbiamo scelto di non tifare mai per lo sport spettacolo californiano, preferendo la ruvida concretezza di un pivot che al college fece allargare l’area per come la dominava, per un ribelle che ha saputo ispirare la genialità ruvida del contadino magico Larry Bird. Stoppava, difendeva, ma, soprattutto, aiutava. I compagni in difficoltà, gli ottusi a capire, quando in Kentuky convinse Auerbach e i Celtics a non scendere in campo perché in una caffetteria si erano rifiutati di servire lui e altri giocatori afroamericani.

Certo che non firmava autografi, inganno per menti deboli di campioni che ora si fanno pilotare da “illuminati” in grado di scandire ora della minzione, del pasto, della gita, gente che sceglie per te, che si fottano le società, i compagni, figurarsi i tifosi. Ecco era quello che Bill provava a far capire nel suo viaggio straordinario cominciato vincendo nella NCAA con San Francisco, ritardando la firma con i professionisti per l’oro olimpico di Melbourne, perché nell’ipocrisia dello sport soltanto per dilettanti, all’università, alle Olimpiadi, lui aveva accettato anche questa regola che ora fa ridere persino i figli sbagliati di De Coubertin, quelli che vendono tutto, barattano con le televisioni storie e pianeti, ti cancellano la “noiosa” 50 di marcia, da fare, rigorosamente all’alba –, per salvare dal calore gli atleti? –, ma dai, solo per togliersela dalle palle.

Russell premiato sempre troppo tardi e sembrava dircelo in quella foto magnifica con Abdul Jabbar tenendo quasi in braccio il grande Cassius Alì che vicino a loro, lui alto uno e novanta, sembrava uno di quelli che adesso cercano di spiegarci perché i papaveri della politica non sono poi così tanto alti.

Bill che ancora dava lezioni fino al giorno dell’addio in quella isola dei mercenari dello stato di Washington, sapendo che attraversando con Caronte o san Pietro, avrà avuto senz’altro qualcosa da dire anche a loro se negli Stati Uniti i suprematisti hanno sempre tanti ascoltatori, fra politici e guardiani della legge. Sì il grande cestista avrebbe spiegato perché fece il giudice corrotto in una puntata di Miami Vice, e perché Auerbach lo aveva scelto come vera icona di quei Celtics, poi passati nella mani di Larry il campagnolo, che sono, per gli amanti dello sport di squadra il simbolo, senza personalismi, divismi, anche se capaci di riconoscere un primo violino, l’essenza vera di una scelta.

Non tennis, non atletica o nuoto. Chiese stupende, ma diverse. Squadra, gruppo. Lo si dice spesso, persino nei giornali che vantano grandi guadagni oltre il cartaceo e sulla coppia fresca lasciano le impronte di troppi precari pagati con acciughe e testa di serpente, di troppi prepensionati, anche bravissimi, ma quasi sempre liquidati, fra risate generali, “un rompi di meno che se ne va”. Esperienza amara per molti. Vero che sentirsi insostituibili è una puttanata, nel lavoro, nello sport, ma insomma c’è modo e modo.

Ora caro Bill facci un piacere saluta tutti i nostri cari amici che se ne sono andati gli ultimi Casalini e Sarti che ti sarebbero piaciuti, fallo per Mike D’Antoni, triste davvero come il Kenney che vi augura pace fra ulivi infernali, con cui hai condiviso una gioiosa presentazione del campionato di basket italiano nel 2006 a Roma, quando ancora non ci si nascondeva, quando la nascita del calendario veniva considerata importante. Figurarsi oggi. Vuoi mettere i divorzi, le previsioni, il fantatutto? Un mondiale di pentathlon moderno. Una breve, c’è da mettere una pagina sugli schemi del calcio che ha davvero tutto, soldi, miliardi, magari da Monopoli, tifosi sulla terra, ovunque, uno sport così popolare che ora, dopo aver dato il professionismo anche al settore femminile può sfidare gli altri, come il montanaro di Mediterraneo che voleva portarsi l’asino in barca, a copiare o almeno imitare: quanta gente avete messo in tribuna per i mondiali di atletica ad Eugene? Tanti. Forse, ma noi del pallone per l’europeo donne vinto dalle inglesi abbiamo avuto quasi 90.000 persone a Wembley e milioni in piazza a festeggiare. Voi? Ah già, in Italia vi state ancora chiedendo cosa è successo agli ori dell’agosto olimpico in quel di Tokio. Ve lo diranno gli addetti all’immagine, regolatori diabolici di pranzi, cene, presenze televisive non certo al campo per allenamenti duri seguendo la regola che ispirava i grandissimi: in una parte del mondo c’è uno che si allena più e meglio di me per battermi.

Inchinandosi per raccogliere le prime venti/trenta pagine di giornali stracciati e non letti, sperando di arrivare a sezioni più interessanti e utili, magari per capire malattie che non finiscono mai, anche se ci dicono che sono finite rubricando i morti i un casella misteriosa: nu se sape.

Adesso sarebbe l’ora della medicina e delle pagelle. Meglio la prima o le seconde? Proviamole tutte e due.

Prima i voti a perdere.

• 10 A Bill RUSSELL per come ha interpretato la vita da grande campione, grande allenatore, grande combattente per i diritti di chi non può difendersi, uno convinto davvero, ad esempio, che i giornali debbano servire la gente e non chi la comanda.

• 9 Alle leonesse inglesi per quella finale europea di calcio vinta a Wembley che ci ha mostrato un’altra faccia della luna calcistica. Non so come avrebbero reagito i masculi a tanta durezza e pressione, ma loro, almeno, si sono risparmiare le testate, no con gli insulti ci hanno dato dentro e l’ucraina che arbitrava fingeva di comprenderle perché, in effetti, nella sua terra sta accadendo qualcosa di peggio.

• 8 Alla FERRARI se anche questa volta riusciranno a dimostrare che in fondo il bicchiere è mezzo pieno. Diciamo che in questo sono al momento i veri campioni del mondo.

• 7 Agli OTTIMISTI convinti che le prossime stagioni agonistiche a pagamento saranno portatrici di benessere per poter andare a comperare dovunque e comunque. Attenti al virus e ai macachi che guidano, magari, federazioni potenti, leghe avide che non considerano la solidarietà un bene da tutelare. Forse in serie B non sanno che allo sport i ragazzi arrivano dopo aver imparato a correre, marciare, saltare, lanciare e nuotare.

• 6 A VERSTAPPEN che in questo periodo di gloria olandese in tanti sport, un po’ come quello danese, fa ancora cose che stupiscono chi considera la macchina più importante del pilota.

• 5 Alla PALLAVOLO che, come il nuoto, fa diventare verdi di rabbia tanti sport diretti da presidentoni che sanno quasi tutto, fanno battaglie sociali degne, il basket contro la poca solidarietà del tipo che dirige la serie B, ma poi inciampano quando devono spiegare perché le cose vanno malamente e non soltanto in bicicletta.

• 4 A Marcel JACOBS, a cui auguriamo tutto il bene dopo tutto il male passato e sofferto, se non ci libererà dall’incubo partecipazione agli europei. In certe gare si può dire che nella Vecchia Europa basta una gamba sola per far pace con tutto e tutti.

• 3 Ai DIRETTORI coraggiosi – ormai soltanto sui siti? –, che si fanno domande a cui non può rispondere nessuno impegnato fra il servizio in tavola a favore di telecamera. Certo ci sono record ancora misteriosi, scarpe migliori di quelle di cenerentola, progetti sbandierati senza avere il minimo di copertura, magari da quelli che hanno avallato l’idea antica sport nella scuola senza insegnanti, gli stessi che amano ospedali senza infermieri. In questo modo fate sentire gli altri ominicchi. Non va bene. Tutti in coda a dire: si buana.

• 2 Al MERCATO sempre aperto in troppi sport che costringe i tutori di campioni o presunti tali ad inventarsi di tutto per giustificare divorzi, ritorni a casa, guerre e paci mai dichiarate. Ora dispiace che all’amo siano stati presi in tanti e che in famiglia si debba litigare per avere questo o quell’abbonamento alla Tv che promette scelta libera a patto che compri i suoi pannoloni sparata a pene di segugio

• 1 Alla SERIE A del basket se ci rispiega perché nelle giovanili, più maschili che femminili, le società della massima serie regalano così poco. Possibile aver dimenticato che nell’età appena precedente a questa con poco da festeggiare, erano i grandi club a servire le Nazionali di ogni genere.

• 0 Ai critici se non riusciranno a spiegare perché la RAI cripta i mondiali, sceglie corse in montagna, ciclismo di ogni genere, sagre, arrampicata in palestra, rumore basta che ci sia un motore, ma è così insensibile al gridolino di dolore che arriva, ad esempio dal basket, già con il musetto ammaccato per altre ricerche in canali privati, a cui piacerebbe credere di avere anche un pubblico. Beh, fra quelli paganti sembra un po’ d’interesse ci sia. Vallo a spiegare però a portabandiera del qualunquismo: serve uno sport fatto in maniera diversa. Il calcio? No, tutto il resto.