Terza pagina / "Nel recinto sacro degli eletti"

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Sabato 18 Giugno 2022

 

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(gfc) Chi sia stato nel giornalismo, per il ciclismo e non solo, l’Autore di questo articolo – apparso nella sua rubrica “La Bottega”, tenuta sulle colonne del Corriere dello Sport, il 23 Aprile 1999 – sarebbe oltremodo scorretto ricordarlo. Chi lo ignora, se ne faccia una ragione. Scritto in occasione della salita di Renato Di Rocco al soglio di Segretario Generale della Federazione di Atletica – tale era il significato della carica fino a non molto tempo addietro –, in seguito passato (ritornato) a significativi destini nel ciclismo nazionale e internazionale. In tempi recenti, il mancato successo della candidatura di Di Rocco alla presidenza del CONI porta il segno di quel cambiamento, auspicato e necessario, alla guida dello sport nazionale.

Sergio Neri

Tra qualche giorno un caro amico diventerà segretario nazionale della federazione di atletica leggera. E’ una notizia come un’altra salvo il nostro piacere che il caro amico, cresciuto nella federazione ciclistica, erede di una piccola dinastia che ha avuto in Magnani e poi in Pacciarelli i fondatori, raggiunga una posizione importante. Tutto qui. Ma la notizia rievoca un sentimento e propone un viaggio nella memoria. Una sorta di tuffo del cuore in uno sport che a dispetto di una spettacolarizzazione industriale cui oggi è sottoposto, resta una sorta di salotto buono di tutte le discipline sportive. E anche una colta palestra di tanti cronisti che in epoca passata hanno realizzato nel recinto sacro dell’atletica la propria formazione professionale.

Perché “recinto sacro”? Ma si, perché quello dell’atletica leggera era un luogo nel quale non era facile essere ammessi, nell’epoca in cui Bruno Zauli lo gestiva. Ma più che Zauli, il geloso guardiano del tempio era un certo Pasquale Stassano, persona di raffinatissima sensibilità e di morboso attaccamento al suo mondo fatto di atleti la cui ispirazione per questo sport doveva essere una sorta di vocazione religiosa. Era un ghetto felice. [Nella foto, Stassano nel suo mondo, un campo di atletica].

Noi giovanissimi cronisti lo frequentavamo con un rispetto rigoroso dovuto anche al fatto che non eri della “setta”, per quanto si riferisce alla sintonia dell’animo, eri spacciato.

Il giovane custodito come un fiore pregiato del giardino, era Livio Berruti, velocista naturale in odore di santità, già un anno prima che si disputassero a Roma i Giochi Olimpici, da lui vinti nella splendida distanza dei 200 metri. Una distanza perfetta, metà in curva e metà in rettilineo.

Era la gioiosa nazionale azzurra di Silvano Meconi, fiorentino, spiritoso e un po’ impacciato in gara, col primato europeo nel braccio (getto del peso) e tante sconfitte in gara per eccesso di emozione. Era la nazionale dei fratelli Lievore, Giovanni il vecchio e Carlo il piccolino che però deteneva il primato mondiale del giavellotto. Ed era la squadra di Manaresi, una promessa del mezzofondo rimaste tale nonostante la grande infatuazione di Lauro Bononcini, suo allenatore e grande collaboratore di Oberweger, statuario commissario tecnico degli azzurri. Tra i quali emergeva da silenziosa e gentilissima regina, Giusi Leone, torinese, protagonista della velocità a livello mondiale.

Pasquale Stassano era il custode ideale della formazione. Era un omino silenzioso e tenacissimo, orgoglioso d’essere in qualche modo il custode delle chiavi che aprivano la porta del suo sacro recinto. Stassano Leggeva ogni mattina tutti i giornali nei quali comparivano notizie riguardanti l’atletica e di ogni riga scritta formulava un giudizio. I suoi giudizi erano tremendi se per caso a qualcuno sfuggiva una critica, la più irrilevante ed innocente: i ragazzi dell’atletica erano intoccabili e l’atletica stessa era un luogo sacro nel quale era bene entrare in punta di piedi e parlare sempre a bassissima voce.

I viaggi della Nazionale all’estero erano i momenti magici, però, della piccola comunità azzurra alla quale si aggregavano, in genere, non più di cinque giornalisti: i quattro delle quattro testate sportive che allora si editavano e uno della radio. La televisione non trasmetteva ancora, alla vigilia dei Giochi di Roma, programmi in diretta sulle gare di atletica. Nei viaggi della Nazionale si realizzava un’atmosfera cameratesca nella quale i tecnici azzurri – da Bononcini a Russo, da Calvesi a Oberweger – manifestavano per intero la loro sintonia trasferendo nella banda degli atleti un tocco di goliardia che corrispondeva allo spirito di questo sport in quell’epoca.

Spirito nel quale si entrava tutti quanti a patto che poi si riprendesse, una volta finito il viaggio, quel rapporto di rispettosa devozione verso la regina di tutti gli sport della quale Stassano, ed anche Zauli, erano i devotissimi servitori.

Quello spirito non c’è più. Intorno alla Nazionale di atletica oggi gironzolano centinaia di giornalisti. Molti sono bravissimi. Ma pochi conoscono quel mondo mistico e spiritualmente affascinante che a noi giovani cronisti dei Giochi di Roma, proponeva l’atletica come un tempio all’interno del quale si celebravano sacre funzioni destinate a pochissimi sacerdoti.

Ma tra qualche giorno l’amico Di Rocco forse lo annuserà. Diventando segretario d’un mondo che a dispetto della rozza invadenza dei soldi, resta, per chi lo ama, il recinto degli eletti. Se ne accorgerà.