Duribanchi / Per negoziare bisogna essere (almeno) in due

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Martedì 10 Maggio 2022

 

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Spiegava J.F. Kennedy: “Non negoziamo mai per paura, ma non abbiamo mai paura di negoziare”. Con una valida deterrenza, però. Non si può trattare con chi spara bombe e missili sui civili, infilando fiori nei cannoni.

Andrea Bosco

Negoziare. L’invocazione del mondo è pressante. Dopo oltre 70 giorni di guerra, dopo orrori e devastazioni. Dopo le menzogne di Putin e la resistenza dell’Ucraina, dopo le sanzioni alla Russia e i costi sempre più elevati per l’economia dei paesi occidentali, il mondo chiede che tutto questo finisca. Negoziato auspicabile ed indispensabile. Negoziato deriva dal latino negotium che significa, commercio. Per commerciare, ergo negoziare, bisogna essere in due. Ma il negotium chiesto dal mondo non ha “merci appetibili”. Sul bancone di Zielisnki (forse) c’è la Crimea. Su quello di Putin c’è una pistola carica.

Si invoca il negoziato, ma non si comprende chi dovrebbe essere il mallevadore del medesimo. Quanti finora (Israele, Turchia, Francia) ci hanno provato, hanno fallito. L’Ucraina rivendica il diritto ad essere uno stato sovrano. Libero di decidere il suo sistema di governo, i suoi rappresentanti, libero di intessere rapporti con chi vuole: libero di richiedere di far parte dell’Europa. Libero di richiedere di far parte di un sistema difensivo, come la NATO. Ma per diritto “zarista” si vorrebbe concedere a Putin la possibilità di annettersi un paese confinante, dopo averlo aggredito e distrutto. Si pretende che l’Ucraina si difenda senza offendere i territori russi. Si concede che la Russia si sia macchiata di crimini infami nelle città ucraine, ma si alza il ciglio se un missile di Kiev affonda una nave di Putin.

STABAT LUPUS – Negoziare, perché come scrisse Berlusconi nel 2015 (e oggi dichiara anche Macron) “Putin non va umiliato”. Il che appare foriero di una prossima spaccatura tra USA e Europa (tranne la Gran Bretagna) sul tema dei rapporti con il macellaio di Mosca. Si temono i suoi missili supersonici, si temono le bombe nucleari, fingendo di non sapere che quello di Putin è un bluff. Se le armi di Putin sono in grado di cancellare in pochi secondi le “isole inglesi” (come spiegano i suoi talk show), altrettanto vero è che cose simili sarebbero in grado di fare anche i missili americani in territorio russo. E alla fine, come nella profezia di Einstein, l’umanità si troverebbe a combattere con i bastoni e le pietre. E questo non converrebbe neppure a Putin.

Quello che sembra voler ignorare l’Europa è che Biden sta percorrendo la strada di Reagan. Il presidente repubblicano alzò a tal punto la competizione per la realizzazione dello scudo stellare, da far implodere l’economia dell’URSS. L’attuale inquilino della Casa Bianca sta alzando la posta delle sanzioni e dell’invio di armi all’Ucraina per far implodere Putin e la sua cricca. La Russia di Putin con la sua politica è un pericolo per il mondo. Concedere oggi qualche cosa a Putin significherebbe ritrovarselo più agguerrito e forte tra qualche anno. In Russia non ci sono partiti di opposizione che controllino gli stanziamenti militari del governo. Non c’è una libera informazione in grado di documentare gli orrori di Bucha. Putin che fa sfilare in parata il suo esercito il 9 maggio sta raccontando al mondo la sua versione della favola di Fedro: Superior stabat lupus.

Secondo il lupo Putin ad inquinare il torrente è stato l’agnello di Kiev, benché in posizione più bassa rispetto allo scorrere delle acque. E come nella fiaba per poter sbranare il lupo accusa la vittima di “aver sparlato di lui, sei mesi prima”. Alla replica “sei mesi fa non ero ancora nato”, la belva si accanisce ululando “è stato tuo padre a farlo”. Putin è un despota che va combattuto. Vuole parte dell’Ucraina perché quelle terre sono ricche di minerali preziosissimi. Perché l’Ucraina è il granaio del mondo. Perché non può sopportare che ai suoi confini nasca una democrazia di tipo occidentale. I tiranni odiano la democrazia. Specie se sono stati spie del KGB. La sconfitta di Putin deve diventare un monito per chi fosse tentato di intraprendere i percorsi criminali da lui battuti. Spiegava J.F. Kennedy: “Non negoziamo mai per paura, ma non abbiamo mai paura di negoziare”. Con una valida deterrenza, però. Non si può trattare con chi spara bombe e missili sui civili, infilando fiori nei cannoni. Checché ne pensi Del Rio, arrivato a chiedere (per arrivare alla pace) il disarmo. Unilaterale, probabilmente.

TRANSAZIONI – Il tiranno di Mosca gode di molte simpatie in Italia. Forse frutto di inconfessabili transazioni. Gli italiani sono soliti bruciare bandiere americane. Sono pronti a fare sit-in contro gli USA. Ma non si è vista in Italia in questi mesi una sola bandiera russa bruciacchiata. Mai una manifestazione anti Putin. Tante, pacifiste, contro i “guerrafondai” di Washington. La Russia, anche se oggi è dispotica, viene percepita in Italia come democratica. Il problema non è che Bianca Berlinguer e la sua corte vengano silenziate dalla RAI facendo gridare alla “censura”. Ragli chi vuole nello studio di RAI-3: c’è sempre la possibilità di usare il telecomando.

Il problema è che l’ex premier Conte, nel 2020, in piena pandemia, consentì l’arrivo in Italia, a Bergamo, di un contingente russo composto da una ventina di medici e da un centinaio di militari. Missione inutile (ventilatori inutilizzabili, numero di mascherine inadeguato) e costosa: 3 milioni di euro a carico dell’Italia. In realtà i russi in Italia avrebbero voluto spiare le basi NATO. Non solo: in Italia arrivano per procurarsi dati sul virus. Visto che chi per primo realizza un vaccino anticovid è in grado di riscrivere l’ordine mondiale. Loro, dopo essere stati in Italia, confezionano lo Sputnik. Grazie agli appoggi che in Italia godono presso alcuni partiti politici e il governo presieduto da Conte. E’ Conte decide con Putin per la missione a Bergamo in 24 ore. Conte è babbeo: Putin quella missione la sta approntando da settimane. Avrà quello che cercava. Anche grazie alla collaborazione (sospetta) dell’Istituto Spallanzani di Roma.

Prima o poi smetterò di scrivere di questi argomenti. Sono del parere di quanti schifano i talk televisivi per evitare di farsi coinvolgere nelle risse catodiche. Più ne parli e più porti fieno alla cascina di Putin. Mi congedo con due storie legate alla Lombardia e a Milano. In Regione governa il centrodestra, a Milano il centrosinistra guidato da Beppe Sala. Dal 15 di aprile il mio medico di famiglia è andato in pensione. Il 6 di maggio mi è arrivata una (a mia moglie è pervenuta tre giorni dopo) lettera dalla sanità lombarda. Mi si informa di quanto già so. E mi si invita ad associarmi a uno dei poliambulatori che la Regione ha allestito in varie zone della città. Sono tutti lontani rispetto a quella in cui abito, ma sarebbe il meno. Il problema è che i poliambulatori sono dei supermercati della sanità, dove non vai dal tuo medico, ma da “un medico”. Non costruisci né un rapporto di empatia, né di fiducia: non sei un paziente, sei un numero.

Lanciò la riforma in Lombardia il leghista Maroni, perfezionata da Letizia Moratti che leghista non è e che (a mio parere) ha svariati meriti. Non però quello relativo a questa riforma. Che in buona sostanza (anche se con le migliori intenzioni del mondo) rappresenta una violenza verso i cittadini-pazienti. Non è solo una questione di “prescrizioni”. E’ il rapporto di fiducia tra medico e paziente ad essere stato eliminato. I medici si sono messi – causa riforma – in pensione in massa. Non c’è cittadino lombardo che non sia incazzato. Anche perché, all’italiana è successo questo: i medici in “zona”, sopravvissuti, sono stati contattati ben prima dai singoli cittadini. Ben prima che la Regione si svegliasse con la sua lenta burocrazia. E quindi – ad esempio – uno studio scovato in una via adiacente alla mia ha risposto: “Spiacente, abbiamo già 1700 pazienti (roba da dottor Tersilli, cinematografico medico della Mutua) e non possiamo allargare la base: ce lo vieta la Regione”.

ATM – Altro scenario: sabato 8 maggio prendo la metro da Cadorna a Cordusio: due fermate. Scendo alle 12,05. Al tornello (mentre sto obliterando per uscire) un caucasico “furbo” lo scavalca, ovviamente senza pagare. Mi ci soffermo perché un cittadino di origine asiatica (cinese, probabilmente) viene sfiorato da una delle scarpe del figuro mentre si accinge a sua volta ad immettere il biglietto d’entrata. Mi avvicino alla guardiola dell’ATM ma è vuota. Faccio la commissione per la quale mi sono spostato in centro e alle 12,36 sono nuovamente in Cordusio diretto a Cadorna. Stavolta i tornelli li saltano due ragazzi: probabilmente magrebini. Torno alla guardiola ma è ancora deserta.

Allora una volta arrivato a Cadorna segnalo la cosa ad uno degli addetti, raccontando la piccola protervia. Mi risponde con grande educazione che la cosa è di competenza “della sorveglianza”. Ma in tanti anni che viaggio nella Metro di Milano, non ho mai visto un vigile, un poliziotto, un carabiniere sui treni. Ho visto nel periodo dell’emergenza “terrorismo” qualche soldato nei mezzanini. Ancora ci sono. Lo faccio notare e l’uomo in visibile imbarazzo dice: “Per l’assenza del collega nella guardiola, esiste un protocollo che in determinate circostanze consente di spostarsi temporaneamente dal luogo di lavoro. Per il resto capisco la sua frustrazione. E’ anche la mia quando finisco il mio turno e dismetto questa divisa”.

Ho pensato di scrivere a qualche quotidiano. Ma dopo aver inutilmente segnalato (tre anni fa) le buche presenti in via Boccaccio, ho deciso di desistere. Le buche si sono allargate, il manto stradale non è stato mai rifatto. Conviene rassegnarsi all’illegalità. Non ho più l’età per scavalcare i tornelli: fossi più giovane credo lo farei.

Violando la legge. Consapevole, peraltro, di essere in “buona” compagnia. Spiegava Curzio Malaparte che “la legge, in Italia, è come l’onore delle puttane”.