I sentieri di Cimbricus / Ma perche' continuiamo a scrivere?

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Martedì 13 Luglio 2021

 

              scrivere 


Viviamo ormai tutti nel “presentismo” dove esiste solo un eterno presente da divorare con livore, con scherno, ricorrendo spesso al plagio grazie agli strumenti che il potere ha concesso e poi imposto. Come i social.

Giorgio Cimbrico

Dopo la partita, vista accuratamente senz’audio, dopo una nottata quasi insonne per via dei festeggiamenti (l’aggettivo andrebbe scelto tra rumorosi e sguaiati più che patriottici), dopo un colpo d’occhio sulle prime pagine nostre e loro, sono finito in uno di quegli stati di turbamento in cui si mette in discussione non solo la propria coscienza, le proprie convinzioni ma l’esistenza.

Mi sto domandando; perché scriviamo, per chi scriviamo? E se questo esercizio non sia una pratica simile al vizio solitario, così condannato da chi stava dall’altra parte della grata in confessionale, o un tipo di comunicazione che ha come destinatari un gruppo ristretto, costituito da benevoli parenti, da altrettanto compiacenti amici, da rari estimatori: lettere persiane, messaggi nella bottiglia, missive private in cui giudizi che vogliono essere obiettivi, a costo di rasentar l’asettico, non possono raggiungere un pubblico ormai lontano per gusti, atteggiamenti, stile di vita.

Innestare accuratamente il silenziatore al mezzo televisivo è ormai l’unica via di scampo per sfuggire alle onde di un populismo esasperato, praticato in realtà non per convinzione ma per sete di audience, o per tentar di evitare un urlio senza confine, senza decenza. Sono le sgangherate melodie di questi Orfei del XXI secolo, sono gli strumenti che fanno breccia in coloro che non possono spingersi più in là di concetti semplici, crudi, efficaci.

Quello che avete visto era bello, era brutto? Non importa: la scala del giudizio è stata frantumata. E’ il mondo del “tiè” a braccio piegato, dello slogan a presa più pronta di un buon cemento, delle sensazioni che non sono più a buon mercato ma in saldo continuo ben sotto la soglia del 50%, di un brodo in cui navigano i peggiori sentimenti sostenuti dall’architrave dell’ignoranza, ormai assurta a normale stato, a vanto, a disprezzo per quelli che hanno provato ad accumulare modesti sedimenti dai quali trarre qualche lezione in fatto di storia, di bellezza, di moralità.

L’urlo, un tempo, esprimeva l’angoscia, la presa di coscienza della mortalità, dell’abisso dietro l’angolo; oggi l’urlo, orale e scritto, è la dimensione in cui sprofondare, cancellando le percezioni, la minima capacità di analisi. Uno storico ha parlato di “presentismo”, una collocazione che esclude il passato e non contempla il futuro. Esiste solo un eterno presente da divorare con livore, con scherno, ricorrendo spesso al plagio (cinema e persino pubblicità un tempo erano creativi, oggi no, e tralascio le altre arti, percettive o plastiche) grazie agli strumenti che il potere ha concesso e poi imposto: la foto alla pizza che state mangiando, la propagazione in rete di qualche insulsaggine ricoperta di cuoricini e di like. Le invasioni barbariche erano una scampagnata.

Circondati da volti ferini o attoniti, come in un quadro di Bosch o di Ensor, immersi un grande nulla sempre più vasto non resta che provare invidia per Prospero e per il suo antro, per la Biblioteca ordinata dal Grande Curatore o, abbandonando questo repertorio di iperboli e di perfezioni, avvertire nostalgia per il tempo in cui era possibile parlare di cose normali con persone normali in un esercizio di espressione e di ascolto oggi sparito, proibito.

E così, perché scriviamo, per chi scriviamo? Perché è l’unica cosa che sappiamo fare, perché è una regola per sopravvivere (sono onesto: non è roba mia ma il titolo di un bel racconto di Richard Matheson), perché occhi e anima non siano vuoti. Eterna gratitudine agli eroi omerici, alla Commedia, a Sheherazade, a don Quixote, a quel che metteva in scena Shakespeare, a tutti i mondi creati da Stevenson, Barrie, Carroll, Tolkien, agli ardimenti di Joyce. L’elenco non è completo.