Io non c'ero (9) / E allora, che sempre sian lodati, ...

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Domenica 30 Maggio 2021


parigi-roubaix-1964

 

Cantori, erotisti, pornografi: categorie dell’essere e spartizione, peraltro molto personale, dei colleghi in quell’arte un po’ trascurata che resta o resterebbe il giornalismo sportivo. Con spiegazione finale (per i più curiosi).

Gian Paolo Ormezzano

I giornalisti del ciclismo di Bartali e Coppi e prima ancora di Binda e Guerra, insomma i cantori dello sport allora più popolare in Italia, non hanno quasi mai visto i pedalatori in azione. Spiegazione alla fine, ma prima di andare avanti doveroso riassuntino della mia spartizione personale dei colleghi di giornalismo sportivo in:
a) cantori, quelli di cui sopra, che ci credevano anche se non vedevano, santommasi al contrario;

 

b) erotisti, quelli che trascinati da Gianni Brera hanno accettato di studiare almeno un poco lo sport beneamato, da tanti punti di vista;
c) pornografi, quelli che con forti aiuti tecnologici, su tutti la televisione invadente ed invasiva, hanno spinto avanti l’erotismo, arrivando alla radiografia dello sport nudo (adesso, insomma).


È una spartizione che ha avuto l’onore di un’ottima accoglienza in pubblicazioni sulla storia del giornalismo in Italia, e che secondo me non solo regge ancora, ma assume sempre più validità e forza, permettendo di vedere ormai tutto lo sport “altro” (Giovanni Mosca, il grande umorista che spesso seguiva le corse, mi diceva: “Arriveremo a vedere le donne non solo nude, ma in pancreas, e così i campioni dello sport”).


Avanti con l’”Io non c’ero”, adesso. Di turno un celebre giornalista del ciclismo, un cantore fra l’altro assai bravo a scrivere, impegnato in un allora grosso giornale diventato nello sport famoso quando il suo primo inviato, da una sede estera lontana assai e fra grandi difficoltà di trasmissione telefonica del pezzo, cablò alla redazione queste poche memorabili parole: “Per la descrizione ambientale servitevi della Treccani”. Il nostro uomo, fra l’altro amico del cablatore, copriva abitualmente la Parigi-Roubaix, da che era arrivata in forze la televisione, così: arrivo a Parigi la mattina della vigilia, sistemazione alberghiera, divertimenti canonici, la domenica mattina sonno riposante mentre la corsa prendeva il via per andare ad affrontare il terribile pavé dell’inferno del Nord, visita alla redazione sportiva di un giornale amico, televisione a go-go e grazie ad essa corsa narrata nei dettagli ai lettori italiani.

Ma quella domenica (era il 19 aprile 1964) accadde un evento sportivo bellissimo: i pedalatori, confortati anche dalla cancellazione di alcuni tratti di pavé, ce la misero tutta, il vento li aiutò, e venne così tramandata alla storia la Parigi-Roubaix della media record dei 45,129. Al velodromo di Roubaix, spesso sui nostri giornali definito il terminale della “celebre corsa franco-belga”, quando non si percorreva neppure un centimetro di strada in Belgio (Roubaix stava e sta ben dentro la Francia), vinse l’olandese Peter Post. Non solo era la prima volta di un “tulipano” nell’albo d’oro della corsa, ma questo Post era soprattutto un grande pistard, molto noto al pubblico delle Sei Giorni, la kermesse per fachiri della fatica che fra l’altro da tre anni aveva ripreso vita anche chez nous, nel palasport milanese destinato peraltro ad una breve esistenza (un inverno con tanta neve, un crollo, amen).

Il collega si era presentato in redazione con quello che lui pensava fosse un largo anticipo rispetto alla conclusione della Parigi-Roubaix. Ma quando lui arrivò la corsa della media record era già arrivata da un pezzo … E lui faticò a trovare amici che gli raccontassero le vicende nei dettagli utili per scrivere appunto un bel pezzo, e implicitamente sottoscrisse un debito: di informazione e di silenzio complice. Da dire, comunque, che l’articolo suo risultò bellissimo, variopinto, ricco di sfumature, omaggiante l’alta velocità, e peccato che avesse vinto un pistard sprovvisto di un valido palmarès di stradista.

Resta a dire dell’allergia dei cantori alla visione dei corridori. Erano, i cantori (ho fatti in tempo a conoscerli, a spartire con loro il lavoro, insomma a essere complice), giustamente preoccupati per lo stato delle strade e per la tenuta delle auto, e così precedevano sempre di molto la corsa, sostavano eccome in ristoranti preselezionati, monumentini dell’Italia del primo benessere, si scambiavano le poche notizie captate alla radio, inventavano molto e quasi sempre molto bene, amavano lo sport al quale comunque hanno dato tanto …: e allora che sempre sian lodati.