I sentieri di Cimbricus / Nel labirinto dei voli senza ritorno

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Mercoledì 28 Gennaio 2020

 

cerdan 2 


"Pescando da un archivio in cui la commozione non è appiccicata come un malfermo francobollo, un paio di queste pagine. Lassù nessuno li amava. Quaggiù tanti."


Giorgio Cimbrico

Yves du Manoir, Aleksandr Obolensky, il Grande Torino e Cerdan in quel crudele 1949, il Manchester United, i nuotatori azzurri diventati i Caduti di Brema, la squadra cilena di rugby delle Ande (qualcuno sopravvisse, …), gli olandesi del Suriman, lo Zambia, la Lokomotivi Jaroslav di hockey su ghiaccio, Camille Muft, Alexis Vestine e Florence Arthuad (nuoto, boxe e vela di Francia tutti assieme su un elicottero maledetto), la Chapecoense brasiliana, ora Kobe Bryant: i voli senza ritorno iniziano dal tempo del biplano di uno dei più eleganti rugbysti di Francia, proseguono con il principe russo giustiziere degli All Blacks che perde il controllo dell’Hurricane su cui si allenava per dare una mano alla sua nuova patria, mietono vittime quando l’aviazione si apre al trasporto prima dei privilegiati, poi del grande pubblico.

Pescando da un archivio in cui la commozione non è appiccicata come un malfermo francobollo, un paio di queste pagine. Lassù nessuno li amava. Quaggiù tanti. E su quel loro amore sono stati girati due film – uno di è di Claude Lelouch, “Marcel e Edith”, l’altro è “La Vie en rose” – e a ogni anniversario c’è qualcuno che ricorda lo schianto del Constellation dell’Air France sul Monte Redondo mentre si preparava all’atterraggio per lo scalo alle Azzorre. A bordo, 48 passeggeri partiti da Orly, diretti nella notte verso New York: una era Ginette Neveu, giovane violinista che aveva un appuntamento con la Carnegie Hall, un altro era Marcel Cerdan che andava in America per la rivincita con Jake La Motta, per provare a riprendersi la corona mondiale dei pesi medi.

Tutti hanno la loro Superga, la Francia la ebbe in quel momento, sei mesi dopo quella del Grande Torino. E quando lo dissero ad Edith che lo aspettava, lei rispose che sarebbe andata in scena, al “Versailles” sempre tutto esaurito quando c’era lei dietro il microfono. Cantò e si afflosciò in un mucchietto nero: Piaf in argot vuol dire passerotto. Di fucilate ne aveva avute tante, questa la spezzò. E negli stessi momenti la folla del Madison Square Garden, cantò la Marsigliese: sembra una scena de “La Grande Illusione” ed è solo cronaca vera, non offuscata dal tempo.

Per ricordare Marcel, Edith creò l’Hymne à l’amour. Prima, la colonna sonora della loro breve felicità era stata “La Vie en rose”, colorata dai petali che lei gli aveva fatto trovare nella stanza d’albergo dopo che lui aveva domato Tony Zale. Edith vedeva in Marcel il vigore, la forza, la vita: lei, di tutto questo, aveva avuto in sorte solo dei soffi, dei battiti. Lo aveva conosciuto nel ’48 dopo che la sua relazione con Yves Montand era andata in rovina: Yves sentiva ormai di avere ali forti, cantava quel che voleva, non aveva più bisogno di aiuto, di consiglio, sentiva dentro l’impegno politico e aveva trovato la compagna ideale in un’alsaziana dagli occhi indagatori e bellissimi, Simone Signoret. Marcel era diverso da Yves, non aveva quello sguardo disincantato, era un pied noir, venuto al mondo nel ’16 a Sidi bel Abbes, il tempio della Legione, cresciuto in una città – Casablanca – perfetta per una storia di amori spezzati.

In Italia sarebbe montata la marea dello scandalo per la relazione tra Fausto Coppi e la Dama Bianca; in Francia nessuno batté ciglio per la passione esplosa tra Edith e Marcel, sposato, padre di tre figli: uno, Marcel junor, l’avrebbe interpretato sullo schermo. Erano i volti di un paese che si stava risollevando da vicende vergognose e eroiche, crudeli e luminose: capita quando un popolo si divide, collabora con il nemico, lo combatte, persegue il crimine politico, esplora la chance del riscatto.

Marcel era bruno e solido, atleta così solido e versatile – al pari del compaesano Just Fontaine – da meritare persino tre selezioni nella nazionale di calcio marocchina prima che il ring si chiudesse attorno a lui. L’amore con Edith è già scoppiato quando il 21 settembre 1948 lui vive il suo giorno dei giorni: a Jersey City, costringe alla resa alla dodicesima ripresa Tony Zale, radici polacche, soprannominato acciaio temprato, padrone della categoria per sette anni, a parte la breve parentesi concessa a Rocky Graziano. La Francia tributerà al nuovo eroe l’accoglienza riservata a Lindbergh e, quattro anni prima, alla brigata di Leclerc, i liberatori.

Il 16 giugno 1949 Cerdan si scontra a Detroit con Jake La Motta, il Toro del Bronx: si lussa una spalla al primo round, prova ad andare avanti e si arrende al nono intervallo. In tempi non inquinati da un proliferare di associazioni, non è difficile fissare la data della rivincita: il 28 settembre. Cerdan rimane a New York: Edith ha una scrittura con un paio di locali che la trattengono in America almeno sino a Natale. Ma non lontano dalla data del match, La Motta presenta certificato medico: mano infortunata in allenamento. O timore per le formidabili condizioni in cui era annunciato il francese? La rivincita scivola al 2 dicembre.

Marcel decide di tornare in Francia e subito Edith inizia a tempestarlo: “Torna”. Decide di accontentarla: va agli uffici dell’Air France e chiede di prenotarsi per il volo del 27 ottobre. Pieno, gli rispondono. Ma no, un momento, due posti ci sono, li hanno lasciati liberi due ciclisti italiani, Nando Terruzzi e Severino Rigoni che hanno dovuto anticipare il volo per esser presenti al banchetto ufficiale della la Sei Giorni di New York. Ci sarebbe anche la prenotazione di una coppia di francesi: non resta che chiamare per vedere se sono disposti a rinunciare. Rinunciano volentieri quando sentono che del posto ha bisogno Marcel Cerdan. Il 27 ottobre, alle 21,06, l’aereo decolla da Orly; il 28 ottobre, alle 3 del mattino ora delle Azzorre, il Constellation è un ammasso in fiamme. Per Edith, Marcel è sepolto a Perpignan, nel sud francese di lingua catalana; Edith al Pére Lachaise, tra i grandi, sotto il nome di Madame Lamboukas.  

Voci da una tragedia. “Voli cancellati: arrivo domani”, telegrafa a casa Duncan Edwards prima che li richiamino per il terzo tentativo di decollo. “Qui c’è da morire: bene, sono pronto”, mormora Liam Whelan salendo a bordo e leggendo il proprio destino; “Andiamo in fondo, è più sicuro”, invita Frank Swift, il vecchio portiere della Nazionale e del City diventato commentatore per News of the World; “Cristo, non lo tiriamo su”, grida Ken Rayment, secondo pilota, a James Thain, il comandante. La velocità cala, l’Elisabethan della BEA, volo 609, piega sulla sinistra, esce dalla pista, investe alberi, entra in una casa, inizia a bruciare.

Le tre passate da poco del 6 febbraio 1958, Monaco di Baviera, neve, fiamme, fumo, sirene all’aeroporto di Riem: l’aereo del Manchester United non si è alzato, Harry Gregg, il portiere, è ferito ma tenta di dare una mano estraendo corpi: vivi, morti, non lo sa. “Quando mi sono passato una mano sulla testa l’ho vista tutta rossa di sangue”. Gregg e Bobby Charlton sono gli ultimi ancora in vita che possono raccontare. “Quel giorno – dice Charlton – ho perso gli amici e il sorriso”. Otto giocatori, due allenatori, il segretario, otto giornalisti andati a Belgrado con la squadra, l’agente di viaggio, un tifoso, amico dei vertici del club.

Sono i Busby Babes, i ragazzi dello scozzese Matt che aveva avuto il padre caduto sulla Somme e sapeva che la tragedia è sempre lì, appollaiata sul primo ramo. Busby uscì a pezzi, gli diedero due volte l’Estrema Unzione ma le vere rovine erano dentro. Lo scosse Jean, sua moglie: “Matt, se i ragazzi fossero ancora vivi, ti direbbero di andare avanti”. E così tornò e con la seconda generazione dei suoi Babes, dieci anni dopo il Manchester United vinse la Coppa dei Campioni, prima squadra britannica a riuscirci. Poteva arrivare proprio in quei giorni lontani, la Coppa: dal Real Madrid era arrivato l’invito ad assegnarla a loro, ai morti, ai vivi e a quelli che come Johnny Berry e Jackie Blanchflower non avrebbero più sentito l’erba sotto i piedi, ma non se ne fece niente.

Raccontano che il giorno prima di morire, dopo due settimane di lucida agonia, il meraviglioso Duncan Edwards abbia domandato l’ora del calcio d’inizio di United-Sheffield Wednesday che i superstiti, le riserve e qualche giocatore messo sotto contratto con la fretta del dolore avrebbero giocato il giorno dopo. Non arrivò a sapere il risultato, 3-0 per i Red Devils.

E questo è tutto quello che avvenne dopo. Ripercorrere quel che avvenne in quelle due ore tra l’atterraggio a Monaco di Baviera e una partenza fallita significa finire nel solito labirinto del caso o di quello che gli antichi greci chiamavano fato. Erano andati con un charter perché nel turno precedente, quando avevano eliminato il Dukla Praga, al ritorno, con un volo di linea, avevano trovato nebbia sull’Inghilterra, erano stati costretti ad atterrare ad Amsterdam, prendere il ferry dalla costa olandese ad Harwich e da lì in treno a Manchester. Erano tutti stanchi, tre giorni dopo pareggiarono con il Birmingham City e Busby non era contento. Così, molto più comodo. Sistemata la Stella Rossa, il prossimo ostacolo era il Milan: quelli che non schiacciavano un sonnellino, cominciarono a parlarne dopo la partenza da Belgrado. “Ora pensiamo al campionato”, disse Busby che pensava all’accoppiata.

Alle 13,15 l’Airspeed Ambassador, due motori a elica, prese terra in Baviera. Il tempo di fare il pieno e ripartire: l’autonomia, a quel tempo, era limitata. Alle 14,31 primo tentativo di decollo: sia Rayment che Thain vengono dalla RAF, hanno servito in guerra. Si accorgono che uno dei motori, il sinistro, non ha la necessaria potenza, fanno marcia indietro, riprovano tre minuti dopo ma non sono convinti. Segnalano alla torre di controllo che hanno un problema e tornano verso il terminal. E’ allora che la comitiva scende e che Edwards manda il telegramma. Ma dopo un quarto d’ora, tutti a bordo. Nel frattempo inizia a nevicare, sempre più fitto. “Il vostro spazio per decollare finisce alle 15,04”, li avvertono dalla torre. Alle 15,03 iniziano la rincorsa su quei due chilometri di asfalto, raggiungono i 217 km che potrebbero bastare per far alzare l’aereo ma da quel momento la velocità decresce: la pista è diventata un nastro di fanghiglia. “Cristo, non lo tiriamo su”. Così muore una squadra: diventò il titolo del libro di Frank Taylor, uno di quelli che si salvarono portando per sempre addosso le ferite di quel giorno e le voci di chi era seduto a fianco.