I sentieri di Cimbricus / Sorpresa, condimento dello sport (e non solo)

Print

Giovedì 6 Giugno 2019

 

ruiz 


Nutrimento perfetto per chi ama e sogna le svolte, per chi adora l’imprevisto, per chi vede realizzarsi quel che ha ordinato a un genio obbediente, pronto a colpire ancora quando troverà un altro fantasioso padrone.


Giorgio Cimbrico


La sorpresa può arrivare quando uno trova una lampada, la sfrega, ne esce il genio e capita quel che capita. Ad Andy Ruiz junior deve essere andata così: sovrappeso, con un visibile e tangibile salvagente attorno alla vita, ha abbattuto quattro volte Anthony Joshua, alto, bello, definito, perfetto, senza un’oncia di grasso in più, imbattuto, 21 ko su 22 match, destinato alla riunificazione dei pesi massimi. E ora tre corone su quattro sono in mano al californiano, americano di passaporto, messicano purosangue. Ne abbiamo visti di leggeri, di welter, di medi prodotti da quella terra di combattenti per fame, per bisogno, per aggressività, ma uno così grosso mai.

E’ una storia che riporta al 1990, quando a Tokyo Buster Douglas abbattè Mike Tyson (di mezzo un lungo conteggio che fece arrabbiare Iron Mike …) che prima del match si era abboffato di hamburger, e che finisce per riproporre le iperboli cinematografiche di Rocky Balboa: il signor nessuno che arriva in cima.

Non doveva essere Andy a battersi con Joshua all’esordio americano, in un Madison Square Garden tornato ai vecchi fasti. Lo sfidante era Jarrel Miller, fermato per positività all’esame antidoping. In tre settimane allestito un nuovo confronto, con i ringraziamenti di Joshua a Ruiz per la sua disponibilità. Ora lo ringrazia meno ma ormai è andata e la categoria rinvia ancora la chance di avere un unico sovrano, come ai vecchi tempi.

Tyson Fury – un nome che è tutto un programma – detto il Gipsy King, lo Zingaro Re, affronterà ancora Deontay Wilder che non è solo selvaggio per via del cognome, e la possibilità di un faccia a faccia tra britannici – Fury conto Joshua – comincia a smarrirsi nei labirinti del futuro. Non sarebbe bastato lo Wembley tutto esaurito dove Anthony piegò Klitschko, detto il Martello d’Acciaio.

La sorpresa è un ricostituente nello sport omologato, stucchevole, sempre uguale, che annoia, quello che propone il vincitore più atteso. Nel repertorio delle scosse c’è la falsa partenza di Usain Bolt a Daegu 2011; c’è la rimonta del Manchester United vent’anni fa (all’89’ vinceva il Bayern e Lothar Matthaeus, vicino all’addio, uscì da campione; al 91’30” furono i reds a mettere gli artigli sulla coppa); c’è l’espressione incredula, tramandata dal tabellone di Montjuich, dell’orange Ellen van Langen che diventa campionessa olimpica degli 800 infilando e infilzando Nurutdinova, Quirot, Mutola; c’è la rimonta della Francia sugli All Blacks nella semifinale della Coppa del Mondo 1994 quando i Galli-Galletti rovesciano un 24-10, segnano 33 punti nel secondo tempo, portano in trionfo Christophe Lamaison che dà lezione di piede, costringono alle lacrime voyeur e suiveur accorsi a Twickenham con speranze a bassa gradazione e alla fine ubriachi come avessero ingurgitato litri di acquavite dei Vosgi.    

La sorpresa può arrivare fulminea come un gancio al mento, ma può essere anche a lenta combustione e esaltante (Il Leicester di Claudio Ranieri che fece impazzire i tifosi delle Midlands e arricchì chi aveva puntato sull’imprevedibile), ma in un caso o nell’altro appartiene alla famiglia musicale delle variazioni, riflessive come le Goldberg, impetuose come le Diabelli, nutrimento perfetto per chi ama e sogna le svolte, per chi adora l’imprevisto, per chi vede realizzarsi quel che ha ordinato a un genio obbediente, pronto a tornare nella lampada e a colpire ancora quando troverà un altro temporaneo e fantasioso padrone.