I sentieri di Cimbricus / Vince il CIO la sfida tra Kim e Trump

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Mercoledì 10 Gennaio 2018

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di Giorgio Cimbrico

Pyongyang ora può far rima con Pyeongchang; un po’ di Nord andrà a Sud, appena al di sotto del 38° parallelo, e della squadra (completa di addette al tifo, o cheerleaders, e qualche giornalista) farà parte anche Kim Yo-jung, sorella del sempre sorridente Kim Jong-un che, per il momento, deve aver messo nel cassetto quel pulsante che ricorda “Il Dottor Stranamore” e l’ordigno “fine di mondo”. In ogni caso, Donald Trump aveva fatto sapere che lui ce l’ha più grosso. Il pulsante, intendo. E mentre Pechino e Mosca applaudono, una portavoce USA si domanda se sia un gesto genuino.

Il CIO esulta: non è uno dei compiti dello sport favorire i processi di pace? riunire quel che la storia ha separato? abbattere le cortine e i muri? cancellare le inimicizie? continuare a perseguire l’ideale antico della tregua olimpica? Con il cordiale incontro tra coreani del nord e coreani del sud sulla linea di fuoco di Panmunjon, lo spirito del consiglio d’amministrazione di Losanna torna a volare alto. L’Olimpiade a rischio, nata sotto il segno del pericolo, vede il termometro scendere di gradazione e può riproporre un mercato dei Giochi Bianchi che da tempo era asfittico: le sedi classiche, alpine e scandinave, si sono dileguate, specie dopo il no opposto da referendum popolari, e la prossima edizione, strano ma vero, sarà a Pechino, prima città della storia a completare la collezione estate-inverno.

Per motivi di sicurezza i nordcoreani (che con i fratelli separati avevano sfilato nel 2000 a Sydney, nel 2004 e a Torino 2006) alloggeranno su una nave da crociera ancorata a Sochko, a un’ora dai luoghi olimpici, una parentesi di quiete per Ryom Tae-ok e Kim Ju-sik, la coppia del pattinaggio di figura, un tempo artistico, che ha conquistato la qualificazione senza che Kim avesse permesso l’inoltro dell’iscrizione. È evidente che saranno i più inseguiti e i più fotografati, più o meno come capitò a Tonya Harding e a Nancy Kerrigan a Lillehammer 1994.

Da due terzi di secolo i nordcoreani sono i più misteriosi abitanti del pianeta, sport compreso: hanno avuto il loro momento di notorietà quando sconfissero l’Italia di Mondino Fabbri a Middllesbrough (Pak Do-ik è una specie di babau) e quando qualche giorno dopo misero alla frusta il Portogallo: Eusebio rovesciò quello stordente 0-3 trasformandolo in 5-3.

Poi, lunghi silenzi, boicottaggi che destarano poca eco, assenze, sino alla sorprendente vittoria di Jung Song-ok nella maratona dei Mondiali 1999 a Siviglia. L’anno dopo Jung doveva correre nella classica primaverile di Boston e ai Giochi di Sydney: sparita per ordini superiori, per riapparire dieci anni fa quando fece parte della staffetta della torcia olimpica nelle frazioni ospitate dalla repubblica popolare.

Qualche occasione in più ha avuto a disposizione Kim Kuk-hyang che, sedicenne, diventò campionessa mondiale dalla piattaforma a Kazan 2015 battendo le cinesi ed è tornata a farsi viva l’anno scorso: argento ai Mondiali di Budapest e oro alle Universiadi di Taipei.

Nato a Sinuju, oggi Corea del Nord, era Sohn Kee-chung, più famoso come Kitei-son, medaglia d’oro nella maratona di Berlino 1936 calzando scarpe con alluci indipendenti e, purtroppo per lui, indossando la maglia del Giappone, invasore e occupante della penisola sin dal 1906. Sohn, scomparso novantenne nel 2012, è stato il primo a usare il podio olimpico per esprimere il proprio dissenso: tenne sempre lo sguardo basso e usò la piantina di quercia che veniva donata ai vincitori per nascondere il nome del paese che stava brutalmente opprimendo la sua terra.