Amos Matteucci
Amos Matteucci, l’ultimo dei poeti
(gfc) Questa foto mi è stata regalata da Amos Matteucci, col quale – malgrado la differenza di età – ho condiviso per anni emozioni, entusiasmi e dispiaceri in atletica. Una amicizia per me preziosa e confortante, specie nel difficile periodo del mio abbandono, diciamo così, del CONI dei nuovi padroni dalle “belle braghe bianche”. E’ stata presa il 19 luglio 1947 a Praga: un incontro con la Cecoslovacchia perso per pochi punti. (Per chi volesse saperne di più, riporto in chiusura i nomi di quegli azzurri: la squadra sopravvissuta alla guerra). Amos si è spento serenamente nel sonno nel pomeriggio di Santo Stefano del 2008. Al rito della “pennichella” non avrebbe mai rinunciato. Aveva quasi 94 anni, ma possedeva intatta la lucida percezione, e il rimpianto, per quanto cambiato fosse lo sport olimpico, e con esso l’atletica: il faro abbacinante che aveva rischiarato la sua esistenza.
Nato a Iesi, in quel di Ancona, il 20 marzo del 1915, si considerava un sopravvissuto al suo tempo. Ma determinato e fermo, fino agli ultimi giorni, nel presidiare il mondo in cui credeva, fatto di regole chiare, onestà e rispetto degli altri prima che di se stesso. Maestro di più di una generazione, riferimento per i tanti che gli erano amici, attento e lucido ai nuovi eventi (suo grande rimpianto, non poter utilizzare Internet per problemi agli occhi), determinato e tagliente nei giudizi, fino a tarda età aveva continuato a distribuire tecnica d’atletica sul campo dell’Acquacetosa ad allievi che, spesso, avevano poco meno dei suoi anni. Simbolo ultimo di un maniera antica di intendere lo sport, con una visione sempre meno condivisa dalle istituzioni di riferimento, da tempo incamminatesi su strade più superficiali ma ben più remunerative. Non per nulla, quella frase di Erodoto tratta dalle cronache delle guerre tra persiani e greci, già ricordata per il “Senza Cena” di Alfredo Berra, l’aveva fatta stampare sul retro del suo biglietto da visita. Al rito funebre, tenuto della chiesa della Gran Madre di Dio, a Ponte Milvio, a due passi dalla casa dove aveva sempre abitato, brillavano per la loro assenza i rappresentanti del CONI e del CUSI, i due organismi ai quali con più slancio aveva legato la sua attività di atleta e dirigente. Ma l’assenza più imbarazzante era quella di Mario Pescante che proprio lui, schierandosi contro tutti (e pagando di persona), aveva voluto assumere al CONI alla vigilia dei Giochi del Messico, battendosi poi contro la nomenklatura perché fosse nominato segretario generale.
“Matos”, da come firmava i suoi articoli sul bollettino dell’atletica laziale apparso nel 1946 (il primo giornalino d’atletica del dopoguerra), aveva iniziato a Pesaro con il nuoto, ma scegliendo quasi subito l’atletica leggera, diventando primatista italiano di giavellotto – con la guerra di mezzo – con un 65.94 ottenuto all’Arena di Milano il 16 settembre 1950 (record rimasto imbattuto per un quadriennio). Già sesto ai Mondiali Universitari di Vienna 1939, agli Europei del 1950 si era ancora classificato sesto con 64.99: piazzamento che resta il migliore ottenuto da un giavellottista italiano ai campionati continentali. Nel 1952 aveva preso parte ai Giochi Olimpici di Helsinki. Con la maglia azzurra vantava 20 presenze collezionate tra il 1941 (esordio a Budapest contro l’Ungheria) e il 1953 (ultima apparizione a San Paolo contro il Brasile). In carriera anche otto titoli italiani nel decennio tra il 1942 e il 1952, gareggiando successivamente per Oberdan Pro Patria Milano, Ferrovieri Reggio Calabria (negli anni del conflitto), Capitolino Roma, Minerva e infine CUS Roma.
Nel primo dopoguerra Matteucci è stato tra i ricostruttori dell’organizzazione sportiva romana, prima nel C.R. della FIDAL e poi al CONI a fianco di Giulio Onesti del quale è stato per anni collaboratore non sempre ossequioso. Anzi, sovente entrando in conflitto, come capitò all’epoca del dissidio tra Onesti e la fazione guidata dai presidenti Claudio Coccia e Renzo Nostini che porterà alla fine di un’epoca. Dopo il prezioso supporto a Roma ’60 (si era occupato soprattutto dei tanti impianti di atletica), all’interno della Segreteria del CONI, si era dedicato alla costruzione dell’Organizzazione Periferica (oggi, praticamente, dissolta), ma restando per quarant’anni referente dello Sport Universitario presso il Foro Italico. Lasciata la scrivania per limiti d’età, aveva continuato a porre la sua esperienza a disposizione di diversi organismi del CONI, sempre disponibile ad incarichi di responsabilità.
Membro fino a tarda età della Commissione Benemerenze Sportive e dell’Accademia Olimpica, è stato un profondo conoscitore e difensore dell’ideale olimpico: nel nome di quello spirito, nel marzo 2002, aveva dato alle stampe, a sue spese e in poche copie riservate agli amici, una preziosa raccolta di studi nella quale aveva ordinato per oltre mezzo secolo – e commentato in un grosso volume di 450 pagine – le testimonianze olimpiche dell’età classica intitolata “Gli sport olimpici nell’antichità”. Mi onoro di averne una copia che porta la seguente dedica: “Al mio carissimo amico Gianfranco con affettuosa amicizia e con la speranza che la sua navicella, ‘La Sapienza’, trovi anche in questo testo il porto preferito. Con affetto supplementare. Amos”.
Nella foto: da sinistra (in piedi) Giovanni Guabello (segretario FIDAL), Elio Ragni, Enrico Perucconi, Luciano Noferini, Alfredo Campagner, Albano Albanese, Piero Bassetti, Ovidio Bernes, Mario Lanzi, Beppe Tosi, Aldo Santon, Giorgio Oberweger, Amos Matteucci, il giornalista Mario Ciriachi, un accompagnatore (?); (accosciati) Ruggero Castagnetti, Teseo Taddia, Lorenzo Toso; (sdraiati) Umberto Fiori, Adolfo Consolini, Egidio Pribetti, Tonino Siddi, Aldo Fracassi, Ottavio Missoni, Giuseppe Beviacqua, Dino Conchi, Bruno Rossi.
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