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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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Gerbi

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Giovanni Gerbi [1885-1954]

Ciclismo



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(gfc) Il primo Giro di Lombardia, disputato l’11 novembre 1905, era valido per l’assegnazione del titolo su strada. Al via c’era tutta la crema del ruggente e polveroso ciclismo italiano di inizio secolo. Tra i più vivaci si distingueva un ragazzetto piemontese di vent’anni che scalpitava nelle prime fila nell’attesa del via. E che dopo la partenza s’era subito mostrato tra i più intraprendenti, piazzandosi in testa alla corsa. Almeno fino a quando una rovinosa caduta, nell’attraversamento di un paese, lo lasciò a terra svenuto mentre gli altri corridori proseguivano la corsa. Soccorso, trasportato in una vicina farmacia per una sommaria medicazione, volle risalire in bicicletta, buttandosi alla disperata all’inseguimento, quando ormai gli altri erano già lontano. 

Un tentativo impossibile, ma il ragazzotto in maglia rossa ce la fece: giunto in vista del gruppone, lo raggiunse, sullo slancio lo superò, e poi lo staccò nell’attraversamento di un passaggio a livello, scavalcando da discolo le sbarre. Proseguì da solo la corsa arrivando primo a Milano alla media di 24,970 chilometri orari. Per vedere giungere al traguardo il secondo, Rossignoli, fu necessario attendere 40’45”, un distacco record mai più superato in quella che resta ancora oggi la “classica” di chiusura della stagione internazionale.

Quel ragazzetto spiritato era Giovanni Gerbi, il “Diavolo Rosso” come lo battezzò l’epica e la fantasia popolare, più forse per quel carattere indomito e ribelle che per il fiammante color cremisi della maglia senza scritte che indossò per tutta la carriera. Prendiamo da Vincenzo Baggioli: “L’astigiano, il diavolo rosso, il Piciôt e chi ne ha più ne metta; scavezzacollo in gioventù, impiegato in una sartoria … dopo due giorni tirava il ferro da stiro in capo al principale. Lo chiamavano “el ligera”, e questo può dire tutto”. Certo, il litigioso, ma per i suoi contemporanei egli fu soprattutto “il più rude, il più volitivo, il più tenace e coraggioso fra tutti i campioni della biciletta”.

Di quegli anni, così ricordava Vittorio Varale in un numero dello Sport Illustrato del 1920: “Anche noi avevamo l’idolo, ed era vestito di rosso, come Garibaldi. Era Gerbi, e chi non ha vissuto nello sport di quegli anni non potrà immaginare che cosa rappresentò, soprattutto come forza di attrazione e di emulazione fra le masse giovanili, l’altero ed orgoglioso astigiano. In qualche momento parve fosse un male quella inconscia e devota polarizzazione della simpatia popolare verso un solo campione, a distanzaq di tanti anni bisogna però ammettere che la figura di Gerbi, più che d’un dominatore che attorno a sé facesse il vuoto, fu quella di un campione, esempio e e maestro, sì degno e sì bello che i giovani si affannavano per fare come lui onde giungere ad essere come lui”.


Classe 1885, Giovanni Gerbi era nato ad Asti, nel bel centro del Monferrato, tra i filari di Barolo e Barbaresco. Per correre in bicicletta – una passione che lo travolse giovanissimo – possedeva il fisico adatto. Lo caratterizzava una costituzione muscolosa, quasi da lottatore. Aveva naso rilevato, folta capigliatura nera destinata a mutarsi presto in una lucida pelata. Sanguigno di carattere, irrequieto, fu il più popolare ciclista italiano del primo decennio del Novecento. Un pilastro, un simbolo della ricchissima storia italiana delle due ruote. Campione completo, fortissimo su strada, seppe cogliere importanti successi anche su pista dove si aggiudicò un titolo italiano di stayers stabilendo anche, nel 1910 alle Cascine, il record nazionale delle 6 Ore (coprendo km 208,335 e 20 cm).

Aveva iniziato da adolescente, schierato in una Asti-Moncalieri del 1890, ma già a 17 anni si era aggiudicato una Milano-Alessandria e, nel 1903, aveva ottenuto la sua prima importante vittoria in una massacrante Milano-Torino. Dalla sua, il giovanotto aveva un carattere vincente. Correva come se la sua vita dipendesse dall’esito di quella gara. Testardo, intrepido, sfogava contro gli avversari una rabbia e una foga senza pari, buttandosi a capofitto in avanti per “un suo irrefrenabile bisogno di litigiosa conquista.” La vittoria che più lo esaltava era quella ottenuta per distacco, lasciando i rivali alle spalle, per umiliarli, per esaltarsi. La sua irruenza in gara superava a volte i limiti del regolamento e sconfinava nell’illegalità, nel tentativo di farsi valere anche con le mani o con i gomiti. 

Non tollerava incrinature alle sue certezze di vittoria, per ottenere la quale tutto diventava lecito, anche incitare i tifosi a seminare chiodi dopo il suo passaggio. E fu un proprio un suo gregario, che – guarda caso – si chiamava Chiodi, a procurargli una squalifica di due anni denunciando di aver concordato con lui, e volutamente danneggiato coinvolgendoli in una caduta, i francesi Gustave Garrigou e Petit Breton durante il “Giro di Lombardia” del 1907... Squalifica resa inevitabile anche dal comportamento dei suoi tifosi che trattennero ad un passaggio a livello i due francesi lanciati all’inseguimento. 

Gerbi fu in buona sostanza un campione che aveva un bisogno quasi fisiologico di appagarsi, soddisfare la sua smania di vittoria. Sicuro di sé, sovente strafottente, come quello stuzzicadenti che faceva ruotare tra le labbra. Il suo alter-ego lo trovò nel corregionale e coetaneo Giovanni Cuniolo, futuro maestro di Coppi, dal quale lo divise una rivalità che non ammetteva ripensamenti (leggenda vuole che i due si stringessero per la prima volta la mano, ad occhi bassi, solo nell’estate del 1951, al funerale di Serse Coppi, lo sfortunato fratello minore di Fausto). 

Il “diavolo rosso” ebbe una carriera relativamente breve, ma la chiuse con trentadue affermazioni, quasi tutte colte nelle più celebrate classiche del suo tempo. In anni nei quali si correva molto meno di oggi. Tra quelle, dopo la prima edizione del Giro di Lombardia, i Giri del Piemonte del 1906 e del 1908, le edizioni 1907, 1908 e 1909 della massacrante corsa nazionale che celebrava il XX Settembre (come allora si chiamava la Roma-Napoli-Roma). 

Non incontrò invece nessuna fortuna nè nella gara di primavera, la Milano-Sanremo, nè al Giro d’Italia dove cadde alla prima tappa dell’edizione inaugurale. Dopo un terzo posto nel 1911, il Giro tornò a correrlo solo nel 1933, a 48 anni d’età, e da isolato, riuscendo comunque a giungere fino a Milano, malgrado i postumi di un’insolazione e una squalifica comminatagli alla terza tappa, ma subito rientrata per le minacciose intemperanze dei suoi tifosi. Che non lo abbandonarono mai.

Chiuso con il ciclismo attivo, Gerbi si sposò alla vigilia della Grande Guerra e con le bici e col suo nome aprì in attività commerciale che incontrò un discreto successo. Quella sua vita tutta di corsa si concluse nel maggio del 1954 (alla vigilia del 37° Giro), quando rimase ucciso in un incidente stradale nelle strade cittadine. All’annuncio della sua morte, Guido Giardini – il maggior cronista di ciclismo del tempo – scrisse:

"Gerbi va inquadrato nel suo tempo, in quel tempo romantico che chiamammo anzi eroico, senza  vergognarci dell’iperbole, perché eroismo sportivo si poteva definire il ciclismo su strada di allora. Erano i giorni di Salgari. Era un’epoca in cui tutto era romanzo, avventura, leggenda, era l’epoca dei primi e dei più puri entusiasmi, nella quale il diploma, la sciarpa, la medaglia costituivano il premio dei dilettanti, e qualche lira di guadagno dei professionisti.I corridori lavoravano tutta la settimana: Galetti faceva il tipografo, Pavesi il fornaio, Ganna, Oriani, Cuniolo, Albini, Rossignoli, lavoravano dal lunedì al sabato, rubavano le ore al sonno per allenarsi e si presentavano ad una corsa magari di 400 chilometri. Alla domenica armati soltanto di coraggio, con le tasche imbottite di pane e salame e una bottiglietta di vino per affrontare dieci, quindici ore di sella sulle strade infami di quel tempo."


Cos’è stato Giovanni Gerbi nel suo tempo? Un campione nel senso più lato del termine. Era un atleta leggendario. C’era in lui la personalità che manca a troppi corridori moderni, la prepotente volontà di vincere, la caparbietà, anche la superbia se volete. Era un orgoglioso, pieno di sé come i grandi capitani di ventura per i quali non esistono ostacoli insormontabili. Un uomo senza paura, senza tentennamenti, persino feroce nella sua indomita volontà; un carattere che non si piegò mai, che guardò sempre in faccia tutti con fermezza, che non ammise mai la superiorità di un avversario”.

(revisione: 21 gennaio 2015)

 

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