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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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Boine

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Piero Boine [1890-1914]

Pugilato



(gfc)
Le righe che seguono sono il ritratto che di Piero Bóine, pioniere della boxe, primo campione italiano di pugilato per la categoria maggiore, titolo riconosciutogli postumo alla costituzione della federazione, avvenuta due anni dopo la sua scomparsa. Le ha lasciate scritte Giuseppe Mangiarotti, che gli fu maestro di scherma e amico prima ancora che precettore. “Mancino, longilineo, alto, in possesso di un fisico invidiabile per forza e morbidezza di muscoli, riusciva facilmente ad eccellere in tutti gli sport. Così si era anche dedicato con buon successo al nuoto, alla lotta, al sollevamento pesi. Ma la boxe doveva avvincerlo e crearlo il numero uno del professionismo italiano”. 

Un ritratto veritiero ed affettuoso, poiché il giovane Bóine era stato tra i suoi allievi prediletti, e aveva per qualche tempo frequentato con successo la sala di scherma di via Chiossetto, a Milano, la prima palestra dalla quale il capostipite della famiglia Mangiarotti aveva iniziato a spezzare il pane della sua scienza schermistica. E i suoi figlioli l’avrebbero ripagato a iosa, facendosi protagonisti sulle pedane della scena olimpica e mondiale.

Bóine rimase sempre legato al suo maestro tanto che, – adagiato sul letto di morte, dove, a soli ventiquattro anni, lo spegneva una infezione da tifo –, lo mandò a chiamare per salutarlo un’ultima volta e lasciargli – quale “pegno di riconoscenza e di grande amicizia” – le medaglie che testimoniavano dei suoi successi, raccolte sia nel pugilato che nella spada. Mangiarotti, che all’epoca aveva di poco passato i trent’anni, si schernì: “Corsi al suo capezzale. Presenti nella camera la madre, il padre ed un fratellastro. Commosso, rifiutai e lo esortai a donarle a sua madre, che ben più di me aveva fatto per lui”. 

Ma chi era Piero Bóine? Il giovanotto era nato ad Andora Ligure, in quel di Savona, il 20 settembre del 1890, ma era cresciuto sul mare di Portomaurizio, agglomerato che assieme a Oneglia negli anni Venti aveva formato la città di Imperia. Crescendo, aveva messo in mostra un carattere esuberante che, a volere stare ai vecchi testi sui vagiti del nostro pugilato, l’avrebbe spinto ad imbarcarsi su un mercantile, in cerca di avventure. Avrebbe voluto imparare un mestiere, forse diventare commerciante per mare, finì invece per ridursi a mozzo, una condizione estrema che tuttavia permise al suo fisico di sviluppare robusto e armonioso (era alto 1.77 e pesava 77 chili). Ma finì per stancarsi presto, indirizzandosi a scelte più tranquille e consone ai voleri borghesi della famiglia.

Dettagli della vita di Piero Bóine transitano, necessariamente, e si intrecciano con quelli del fratello maggiore Giovanni, uno dei maggiori letterati del suo tempo. Le condizioni economiche della famiglia non erano floride. I fratelli Bóine abitavano, – assieme alla sorella minore e alla madre (rimasta presto vedova, e risposatasi) –, in una casa in affitto di Portomaurizio. Costretti a ricorrere spesso ad amici per poter fronteggiare le spese più pressanti, dalla pigione al conto del farmacista. Da benestanti, avevano dovuto adattarsi a un diverso tenore, aggravatosi dopo la vendita della grande villa e dei vasti uliveti ereditati dal nonno materno. 

La loro restava comunque una condizione borghese, nel cui ambito si fa fatica a ritenere possibile un colpo di testa del giovane Piero, quale appariva la decisione d’andarsene per mare, per di più come una scelta di vita. Resta difficile credere che egli si fosse segnalato, sin da adolescente – come si legge su qualche testo –, per la cieca violenza e “per la sua forza bruta”. Almeno a voler dar fede alle numerose lettere da lui scritte a personalità del tempo (Prezzolini, Novaro, Amendola) per informarli sulle condizione di salute del fratello maggiore, molto spesso impossibilitato a farlo lui stesso, troppo debole com’era per ricorrenti e spossanti attacchi di tisi. Lettere vergate con proprietà e padronanza di linguaggio, difficilmente ascrivibili a un rozzo mozzo di mare. Segno che doveva aver seguito, e completato, corsi di studi almeno ginnasiali. E come, diversamente, con la vicinanza e lo sprone di un fratello quale il suo?

Sappiamo che per un certo periodo di tempo, prima dei vent’anni, il giovane Piero si rifugiò in Francia. Più che per avventura, è probabile che siano state le condizioni economiche a spingerlo verso l’estero. Sulla scia dei tanti liguri che negli anni a cavallo dei due secoli espatriavano, costretti dalla crisi dell’olivo, principale risorsa locale. Sappiamo che era così approdato a Parigi, dove aveva scoperto il brivido della boxe francese a mani nude, tra bistraux e apaches, su quella linea grigia che separava (o collegava) malavita a incontri clandestini. Ma qui il giovanotto aveva anche conosciuto il pugilato sportivo, i veri combattimenti sul ring, con le regole che gli anglo-sassoni avevano steso da oltre un secolo e che il marchese di Queensburg aveva codificato in dodici punti. Match che in Francia erano molto popolari, con riunioni affollatissime e ricche di denaro che si tenevano con frequenza al “Casino”, al “Tivoli” o al “Wagram”, celebri locali parigini.


Di quel mondo nuovo, ancora ai margini dello sport del tempo, le cui prime immagini apparivano sulle riviste sportive del tempo, la francese “Vie au Grand Air” o la britannica “Bell’s Life”, Bóine aveva colto il fascino e se n’era invaghito. C’erano già stati, in passato, alcuni pugili italo-americani capaci di porsi in luce negli Stati Uniti (Andrea Chiariglione, detto Jim Flynn; il napoletano Antonio Rossi, noto come Tony Ross; il lucchese Ugo Micheli, diventato Hugo Kelly, e altri ancora), ma quel nuovo sport che sposava forza fisica con destrezza, era ancora del tutto sconosciuto in Italia.

Forza fisica e destrezza, ecco due qualità che Bóine possedeva a profusione. Così, s’era risolto ad infilare i guantoni. Dei suoi primi passi tra le corde del ring, ha scritto Giuseppe Signori:
“Bóine, che aveva vissuto a lungo nella gaia Parigi della Belle Époque, imparò la boxe studiando Harry Lewis, Joe Jeannette e Georges Carpentier. Tornato a Milano, trovò la maniera di fondare il ‘Club Pugilistico Nazionale’ con il maestro Celestino Caversazio, che già dirigeva il ‘Boxing Club’. Bóine è stato insomma un pioniere del pugilato italiano, come suo fratello Giovanni fu un pioniere del modernismo”.

Proprio così. Il primogenito Giovanni Bóine [1887-1917] aveva percorso ben altra strada, inoltrandosi su quella della letteratura e della riflessione filosofica, con scritti che lo avevano posto al centro del ricco dibattito culturale dei primi anni del Novecento. Le antologie ne segnalano ancor’oggi gli importanti contributi etici, collocando le sue tesi “fra idealismo, modernismo e pragmatismo”. Spirito introverso, collaboratore fisso della Voce di Prezzolini, fu amico di letterati e giornalisti, scrisse e pubblicò molto, ebbe amori tormentati (si legò brevemente anche a Sibilla Aleramo), ma sempre ostacolato da una salute malferma. Un sofferto percorso culturale e umano interrotto, anche per lui, dalla morte prematura che lo colse a Portomaurizio, per un più violento attacco di tisi. Aveva solo trent’anni.

Dopo le esperienze parigine, Piero risolse di trasferirsi a Milano dove, in certe palestre, si cominciava a praticare un rudimento di boxe. Quelle prime esibizioni coi guanti, venivano per lo più allestite ai margini delle più seguite e popolari riunioni di lotta. Ma non era raro, ai primordi, che improvvisati organizzatori ingaggiassero pugili neri, americani o francesi che, più per il colore di pelle che per la loro fama, potevano richiamare l’interesse un po’ morboso degli spettatori e garantivano qualche incasso. Un vezzo al quale si piegò anche la “Gazzetta”, invitando in Italia un gruppo di inglesi – con tanto di arbitro e di speaker – che si esibirono al teatro “Eden” di Milano e in diverse altre città del Nord.


La prima riunione di pugilato all’aria aperta, protagonisti solo italiani, si era tenuta il 1° maggio 1909 a Verona. Il migliore dello sparuto gruppo – come riferisce il contemporaneo Armando Cougnet –, neanche a dirlo, risultò Bóine che, forte delle sue esperienze parigine, si segnalava “sia per allenamento che per scienza e per eleganza negli atteggiamenti di guardia e di movenze”. Nel luglio del 1910, a Valenza Po, si tenne un torneo per assegnare il titolo dell’Alta Italia, sotto l’egida della “Federazione Atletica Italiana” fondata dal marchese Luigi Monticelli Obizzi [1863-1924]. Categoria unica, quattro round da tre minuti con “guanti inglesi da quattro oncie”. Bóine riportò il titolo imponendosi per ko alla terza ripresa su Antonio Ferrari, un neofita milanese della “Post Resurgo”. La sua carriera pugilistica poteva dirsi avviata.

Anche per le pressioni della famiglia, per qualche tempo aveva cercato un lavoro diverso. Possedeva una preziosa patente da chauffer presa in Francia e avrebbe voluto utilizzarla. Per questo, anche in vista del servizio militare, aveva fatto domanda di assunzione presso la “Sezione Automobilisti” delle ferrovie di Roma. Ma ci voleva più di una raccomandazione. Che il fratello tentava di procurarsi ricorrendo alle sue conoscenze (“Chi mi sta più a cuore è mio fratello, ch’io ho sempre paura che mi rimanga ancora un anno in casa”, scriveva ad un amico). Ma senza successo.

Restava la boxe. Come già detto, una strada segnata. Che Piero era ormai determinato a percorrere fino in fondo. È di quel periodo – siamo all’inizio del 1911 – l’incontro con la scherma e con il maestro Mangiarotti del quale diverrà diligente allievo. Si riteneva che scherma e pugilato avessero molti punti di contatto, non tanto per la tecnica, quanto per le similitudine di “tempo e misura”, la prontezza nel portare e affondare i colpi. Lo stesso Cougnet, nel suo manuale sulla boxe pubblicato presso Hoepli, a questa ardita simbiosi aveva dedicato un intero capitolo.

L’approccio di Piero Bóine con la scherma, rigorosamente spada da terreno, l’arma più tipicamente italiana, fu soddisfacente sin dall’inizio. In soli sei mesi di lezioni, “volenteroso e costante”, si era laureato campione italiano dilettanti. Mangiarotti lo volle con sé ad Ostenda, ad un importante torneo con 280 concorrenti al termine del quale il giovanotto risultò terzo. Vittima di una ingiustizia palese, parve, tanto che uno sconosciuto spettatore, indignato per il verdetto, gli offerse una spilla d’oro con diamanti sfilandosela d’impeto dalla cravatta. 

Intanto continuava a salire sul ring, ormai considerato il migliore in Italia, accettando volentieri sfide e ingaggi che lo portavano anche all’estero. Senza timore di nessuno, con risultati a volte disastrosi. Come avvenne nel match contro il massimo francese Max Robert, quando “letteralmente sfigurato e coperto di sangue, trovò la forza di resistere fino alla fine”. O come capitò il 21 settembre del 1912 quando a Lione (dopo un breve periodo di allenamento in comune) affrontò il medio americano Frank Klaus, il feroce ”Orso di Pittsburgh”, un campione del mondo dei medi che aveva costretto Carpenter al pareggio, subendone una dura punizione. Bóine “subì pugni terrificanti finchè, nel terzo round, l’arbitro” si vide costretto ad intervenire per porre “fine al massacro”. Due mesi prima s’era confermato campione d’Italia piegando per il titolo dei massimi Alessandro Valli, abbattuto al sesto round.

Nel contempo Piero aveva preso anche ad insegnarla, quella boxe che praticava, come proprietario del ricordato “Club Pugilistico Nazionale”, aperto a Milano. I dettagli li fornisce lui stesso in una lettera indirizzara al fratello: “Caro Gigi, ricevo ora la tua cartolina. Io sono stato ammalato e ò bisogno di essere curato, quindi l’idea della mamma sarebbe per me eccellente perché così potrebbe aiutarmi e poi non sarebbe così sempre sola. Io ò messo una splendida scuola e do lezioni tutte private, tra le altre anche al Marchese d’Eril Melzi in casa sua e mi va abbastanza bene finchè non sarò ben rimesso non tornerò più all’estero e forse non ci torno più. Scrivimi spesso e mandami le cartoline che mi piacciono assai. Abbiti un bacio dal tuo sempre aff.mo fratello Piero”.

Con quella sua “troupe italo-anglo-americana” si esibiva nelle città di provincia. Durante un incontro, nella primavera del 1913, aveva riportato una frattura che lo aveva costretto a ricorrere all’opera di un chirurgo, ma gli esiti non erano stati soddisfacenti. Tanto da fargli scrivere al fratello: “Il mio braccio è rimasto difettato. Anzi ho intenzione di chiedere danni al dottore chirurgo che mi ha curato”. 

Il sipario sull’ultimo atto della breve vita di Piero Boine si alza all’antivigilia di Natale del 1913. Sfidato per il titolo italiano dal massiccio Eugenio Pilotta [1888-1956], un grezzo e bonaccione neofita che nel pugilato cercava le soddisfazioni che gli altri sport praticati gli avevano negato. Conclusa la parentesi pugilistica e lasciata l’attività, per decenni Pilotta sarebbe stato il fedele massaggiatore dello sport azzurro, seguendo le squadre olimpiche e in particolare la nazionale di calcio. Ma a quel tempo era solo un pugile con poca esperienza, sia pure dotato di notevole forza e grande possanza fisica.

Lanciata e accettata la sfida – per la quale, pare, gli organizzatori avessero approntato una borsa di 500 lire, una somma di tutto rispetto – l’incontro era stato fissato per sabato 23 dicembre al “Filodrammatici” di Milano. Bóine non stava bene. Si saprà in seguito che da tempo soffriva di una forma di tifo non curata. Lo ricorda ancora Mangiarotti. I due, maestro ed allievo, pochi giorni prima erano stati al “Donizetti” di Bergamo per una esibizione di spada. Boine appariva abulico e distratto, forse febbricitante. “Lo esortai a farsi vedere da un medico”, invito che Mangiarotti ripetè poche ore prima del match, quando Bóine si recò nella sua sala d’armi per farsi massaggiare. 

Il combattimento si tenne come stabilito e si risolse come temuto. Colpito subito, e con molta violenza, all’occhio destro, fatto segno ad altri colpi ai quali si esponeva con la baldanza che lo contraddistingueva, debilitato com’era, Bóine non potè opporsi alla veemenza del rivale. Centrato altre volte al corpo e al viso, tra lo sgomento del pubblico che, in massima parte teneva per lui, alfine barcollò e, per non cadere, si aggrappò alle corde. Costringendo così l’arbitro – il giornalista Arturo Balestrieri che, di quell’incontro, stese un lungo e dettagliato resoconto sulla Gazzetta – a sospendere il combattimento e a decretare la vittoria dello sfidante. Dell’ultimo violento affondo di Pilotta, quello decisivo, Balestrieri scrisse: “Se non uccise un corpo, però, uccise un’anima ed una gloria”.

Aggravatosi e trasportato alla Clinica San Giuseppe, a San Vittore, Piero Boine vi spirava per “un attacco violento di tifo” che “dopo atroci sofferenze protrattesi per più di una settimana, lo portò alla tomba”. Il primo campione del pugilato italiano, chiuse gli occhi per sempre il 28 gennaio 1914. Tre anni più tardi lo avrebbe raggiunto Giuseppe. C’è una generosa postilla a questa storia di “gente comune”. Molto più tardi, nel 1984, il fratellastro Piero Giovanni avrebbe adempiuto a un voto e riunite le spoglie dei due consanguinei, dei quali portava entrambi i nomi, nel cimitero di Portomaurizio. Proprio rimpetto al mare dov’erano tutti nati.

(revisione: 12 febbraio 2015)

 

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