I sentieri di Cimbricus / “Alì booma ye, Alì uccidilo”
Domenica 23 Marzo 2025
Ma nella notte di Kinshasa Foreman non morì. E chi c’era, i morti e i vivi, racconta che fu quanto di meglio si possa chiedere alla boxe, allo sport, alla vita, la volontà che diventa energia. George era diverso da Alì, molto diverso.
Giorgio Cimbrico
“Ali booma ye, Alì uccidilo”. Alì non uccise George Foreman – che se n’è andato ieri, a 76 anni, ultimo protagonista di una memorabile stagione – lo mise al tappeto con un jab pennellato nella notte di Kinshasa, attraversata dalla musica rovente di Bill Young, di James Brown, Miriam Makeba, la maga che lanciava sortilegi. “Foreman is down”, annunciò l’arbitro all’ottava quando Alì passò dal martirio al miracolo che aveva costruito avvicinandosi a quella notte rovente che per tutti diventò un cuore di tenebra.
Quando dei ragazzini incontrarono Alì’ in una di quelle albe africane che regalano un piccolo refrigerio prima che l’umidità avvolga e abbatta, e gli dissero “Alì, booma ye, Alì uccidilo”, lui rispose sì, lui avrebbe ucciso quel grosso leone che aveva tradito la “negritude”, che era nero ma era come fosse bianco, che non era più un fratello e in Zaire era arrivato con un cane lupo, Dago, come i vecchi e spietati padroni belgi.
La notte di Kinshasa, il trionfo del dittatore Mobutu che non aveva badato a spese (10 milioni di dollari all’uno e all’altro), nacque in quell’alba livida: lui aveva la gente che ruggiva ed erano 60.000, un miliardo nel mondo. E chi c’era, i morti e i vivi, racconta che fu quanto di meglio si possa chiedere alla boxe, allo sport, alla vita, la volontà che diventa energia.
George era diverso da Alì, molto diverso. Quando in Messico, nel ’68, diventò campione olimpico die massimi ballò sul ring con la bandiera americana, la stessa su cui non posero lo sguardo Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200: pugni guantati di nero e piedi scalzi.
Non aveva mai avuto privilegi – padre alcolizzato, madre cuoca – ma aveva scelto di non essere un arrabbiato. Diventò campione del mondo battendo Joe Frazier detto “Smoking Joe” e raccontavano che il grande sacco da allenamento, all’altezza dello stomaco dell’avversario, aveva un fosso: Alì diceva che George era un zombie ma George sapeva picchiar duro.
Dopo la notte di Kinshasa, il texano mise su chili, si rasò i capelli a zero (un gigantesco Buddha, sembrava), incontrò la fede, divenne ministro della Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, alternò virtù a eccessi (cinque matrimoni, dieci figli, i maschi furono battezzati tutti George), volle nel giardino della casa di Houston (otto camere da letto, sei bagni, una piscina, una sauna) un leone e una tigre, andava a far shopping in Rolls Royce e con un robusto rotolo di banconote in tasca.
Tornò sul ring a 43 anni per combattere alla pari – e perdere – con Evander Holyfield e, due anni dopo, battendo Michael Moorer, diventò a 45 anni il più anziano campione del mondo dei pesi massimi. Era il tempo in cui incontrò un giovane e spericolato imprenditore di successo e ne divenne amico: Donald Trump.
George non è diventato ricco con la boxe: un grill per il barbecue che sulla confezione portava la sua immagine gli fruttò 137 milioni di dollari. Il leone e la tigre avevano carne per i loro denti.
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