Duribanchi / Gaza, un dolore inflitto al mondo
Martedì 11 Febbraio 2025
“Ma Genocidio resta una parola che ammanta di sdegno, e che dovrebbe essere usata con molta cautela. Per rispetto di quei sei milioni e mezzo di uomini, donne, bambini, gasati nei campi di sterminio nazisti.”
Andrea Bosco
“Ombre: non più uomini, ma ombre”. Così scriveva un soldato polacco nel 1945 sul Polpress Buletin descrivendo i sopravvissuti del campo di sterminio di Auschwitz. E così, macilente ombre, sono apparsi i tre ostaggi liberati a favore di telecamere, brutalità voluta dagli aguzzini, urla belluine del popolo di Gaza accorso a circondare il palco della vergogna.
Dove il rappresentate della Croce Rossa, dopo aver stretto la mano che grondava sangue al carceriere palestinese imbacuccato e mascherato come un rapinatore, si è seduto a “firmare” accanto a lui una carta per l’avvenuta liberazione su un improvvisato tavolo. Mentre la sua collega restava in piedi, come usa da quelle parti con le donne, umiliata da un protocollo che dalla Turchia alla Siria, mai cambia.
Eli Sharabi, 52 anni, Ohad Ben Ami, 56 anni, Orl Levy, 34 anni: gente comune. Ridotti a larve umane. Portati barcollanti su un palco, dopo aver patito botte, torture, fame, freddo, buio. Appesi a testa in giù per ore. Soffocati da stracci infilati nella bocca. Scheletri: “gli occhi come fosse nere” ha scritto Fiamma Nirestein. Sulle casacche da carcerati, un numero. Come i condannati di Auschwitz. Dietro al palco degli aguzzini, (immortalata dalle complici telecamere di Al Jazzeera) la scritta: “Noi siamo la Nukba”. Vale a dire: “Noi siamo l’inondazione”. Ostaggi costretti a ringraziare la “misericordia” dei carnefici.
Per quei tre uomini lungamente seviziati, Israele ha liberato più di 180 detenuti palestinesi in carcere per gravissimi reati. Eli Sharabi ha ascoltato dalla bocca di un incappucciato che suo fratello Yossi era stato ucciso. C’è un padre, liberato nello scambio antecedente a questo, che non sa ancora se sua moglie e i suoi due bambini siano ancora vivi. O se – come sostiene Hamas con un peloso comunicato – siano morti sotto “le bombe di Israele”. La madre di uno degli ultimi ostaggi liberati ha detto: “Sembra un uomo di 80 anni”.
Questa è Hamas: la crudeltà e la ferocia di uomini che hanno stravolto persino il concetto di guerra. La tortura psicologica, oltre che fisica, in un disegno deviato e malato. Non sono combattenti, non sono resistenti, non sono guerriglieri, non sono terroristi: sono gli Assassini della Montagna, addestrati a cogliere l’acqua con un orcio bucato, il cervello mandato in pappa. E che, saturi di droga, perpetravano i crimini più efferati. Nel nome di un libro che da secoli gronda sangue. Quel sangue che Hamas pretende anche dal suo popolo: più bambini, più donne, più anziani ammazzati, sono il prezzo del sacrificio dei “martiri” per sublimare l’Idea.
Hamas non vuole solo il sangue degli ebrei. Vuole anche quello del suo popolo, dietro al quale vigliaccamente si nasconde: nelle case, nelle moschee, negli ospedali, nelle scuole. Là dove sono i depositi di armi accumulati nel tempo con le risorse degli aiuti umanitari. Convinti che morire per l’Idea, li spedirà nel paradiso di Allah, dove per ognuno di loro decine di vergini in attesa rappresentano il premio. Eppure Israele dialoga con loro: avendo come priorità (al prezzo della scarcerazione di acclarati assassini) quella di riportare a casa il maggior numero di ostaggi, vivi. Consapevole che i morti, oggetto di uno spregevole baratto, saranno numerosi. Forse più dei vivi.
Uno scrittore ha spiegato che “il numero degli ostaggi israeliani – ancora nelle mani di Hamas – è minimo, ormai, rispetto alle vittime che nel frattempo si sono accumulate a Gaza”. Sono gli ostaggi – a parer suo – a impedire “qualunque moto decisivo di sdegno rispetto a quello che nel frattempo è stato fatto a Gaza. La loro permanenza nei tunnel è un salvacondotto per le frange più estremiste della popolazione e del governo”. Il pensatore da prima pagina si chiama Paolo Giordano. Stentavo a credere di leggere quanto stavo leggendo. Il riassunto “politico” dell’articolo nella seguente riflessione: gli ostaggi servono ad Hamas come “rappresentazione” di “uno strano, stranissimo reality show” ripreso passo passo da Deir Al Balath, fino al confine, e poi in Israele, da Al Jazeera. Mentre dall’altra parte del mondo “la presenza sorniona di Netanyahu accanto a Trump (mentre dice le cose che dice sul futuro della Striscia)”, rappresenta “la volontà di estremizzare (ancora) tutto”.
E ancora: “Meno, in apparenza (la rappresentazione) è in contrasto con la narrazione di Gaza distrutta, delle decine di migliaia di vittime civili, del genocidio, del contro-esodo straziante di un popolo in cammino verso le proprie case distrutte.” Hamas stima quella vittime in numero di 45.000. Ma anche fossero solo le 23.000 certificate dall’ONU, il numero sarebbe mostruoso. “Genocidio” è una parola che ammanta di sdegno, ma che dovrebbe essere usata con cautela. Per rispetto di quei sei milioni e mezzo di uomini, donne, bambini, gasati nei campi di sterminio nazisti.
L’Italia non è Gaza, dove Hamas per vincere le elezioni gettava dai palazzi gli oppositori politici. L’Italia non è una tirannia. E quindi in Italia si può liberamente scrivere anche quello che ha scritto Paolo Giordano. Da convinto liberale, anche se quello che Giordano scrive non mi piace, gli riconosco il diritto di scriverlo. Ma non so se sarei “disposto a morire” per permettergli di continuare a scriverlo.
Non so come finirà, a Gaza, dopo la “seconda fase”. Nethanyau sta ingoiando molti rospi per riportare a casa gli ostaggi. Quelli ancora in vita e quelli da tempo giustiziati. Pare improbabile che tra qualche anno Trump possa andare a fare, su quel mare, lo sci d’acqua. Ma pare altresì impensabile che accanto ad Israele sorga uno stato Palestinese con Gerusalemme Est capitale. Le “pie donne” della politica mondiale, sollecitano come “imprescindibile” questa soluzione. Dimenticando che non ci sarà pace nella regione fino a quando il “bubbone” Iran non verrà estirpato.
Hamas si regge sulla complicità di alcuni stati arabi e su quella di gran parte della popolazione palestinese. Gli ostaggi non sono stati detenuti solo nei tunnel. Anche le case dei palestinesi sono state (e ancora sono) le loro prigioni. Chi vorrebbe per vicini di casa taglia-gole che rivendicano terra “dal fiume al mare”? Due popoli e due stati, era cosa probabilmente possibile prima del 7 Ottobre. Gerusalemme Est, capitale della Palestina, mai lo sarà. Oggi, due popoli e due stati è cosa lontana. Come cosa impossibile appare la provocatoria soluzione Trump di spostare, in qualche stato arabo, due milioni di palestinesi per costruire una Gaza modello Dubai. In questo clima è imbarazzante il silenzio del vescovo di Roma su quanto oscenamente è andato in mondo-visione a Gaza. Perché, altrimenti, uno è portato a riflettere che questi silenzi, non sono infrequenti “al di là del Tevere”. Si tratti di campi di sterminio nazisti o della scomparsa di una povera ragazza evaporata nel nulla.
La cosa terribile è che ogni anno, quando nel mondo si ricordano i morti della Shoah, gasati a milioni nei forni crematori nazisti, si scriva, si conclami, si auspichi, “Mai più”. Invece ancora una volta è accaduto. Quegli ostaggi ridotti a scheletri dopo mesi di patimenti sono i nuovi sopravvissuti all’orrore. E le migliaia di morti a Gaza, per quanto tremenda risulti la risposta di Israele alla mattanza del 7 Ottobre, non potranno mai giustificare l’oscenità di quanto Hamas ha voluto rappresentare a Gaza. Non già la morte dei nemici. Ma la loro umiliazione. La rappresentazione della loro schiavitù e delle loro torture. Un dolore inflitto al mondo, come catarsi del dolore dei parenti dei palestinesi periti sotto i bombardamenti. Mentre scrivo Hamas ha dichiarato che non libererà altri ostaggi. La speranza è che questa decisione non nasconda una orribile verità. E cioè che di ostaggi vivi, non ce ne siano. Per ipotizzare quale potrebbe essere la riposta di Israele a questo ulteriore sfregio non serve, verosimilmente, la Sibilla Cumana.
Ha scritto Sainte Beuve: “Saturazione: c’è un momento in cui ci si arriva. In quel posto che si chiama vita, e allora basta una goccia per far traboccare la coppa del disgusto". Altro non c’è da aggiungere.
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