I sentieri di Cimbicus / "Gli Anni dell'Avventura" (seconda parte)
Domenica 1° Dicembre 2024
(gfc) I 150 di Winston valgon bene uno strafalcione. Qui quello di oggi. Partorito assieme dal piego “culturale” del Corriere della Sera, il quotidiano più venduto, e da Mondadori, la maggiore casa editrice. A pensare agli ultimi, vengono i brividi.
Giorgio Cimbrico
Poco più che quarantenne, Winston rischiò di uscire di scena. Primo Lord dell’Ammiragliato, nel 1915 immaginò di poter vibrare un colpo decisivo sbarcando un corpo di spedizione nella penisola di Gallipoli per puntare su Costantinopoli e vibrare il colpo di grazia al Grande Malato, l’Impero Ottomano.
Errori, incertezze, ritardi trasformarono quello che doveva essere un formidabile colpo di mano nella stessa stagnazione della guerra di trincea di Fronte Occidentale, con perdite terribili soprattutto tra le truppe inviate da Australia e Nuova Zelanda, l’ANZAC. L’evacuazione andò di pari passo con le dimissioni di Winston, che andò nelle Fiandre, ufficiale delle “Scots Guards.”
La fama di avventurista, di stratega dilettante gli piovve addosso per non asciugarsi mai. Per lunghi anni Churchill fu l’uomo di Gallipoli e spettri lo visitarono anche quasi trent’anni dopo, quando il momento decisivo – lo sbarco in Normanda – si stava avvicinando. Ancora una volta il suo destino si sarebbe deciso su una spiaggia. “Allora, quando andiamo?”, chiese irrequieto a Eisenhower durante una cena nella sua residenza di campagna, ai Chequers, Buckinghamshire. Aveva settant’anni e si sarebbe imbarcato volentieri per chiudere con i tormenti dell’attesa.
Era l’uomo che voleva infondere fiducia, forza, spirito, ottimismo. “Hanno scelto il disonore per evitare la guerra; hanno avuto il disonore e avranno la guerra”, lanciò la sua bordata a Neville Chamberlain dopo il patto di Monaco, la condanna a morte della Cecoslovacchia. E avrebbe concesso un clamoroso bis nell’ora più buia, appena salito al potere, quando il suo giovane governo di coalizione tremava sotto i tentativi di mediazione, attraverso l’intervento di Mussolini, proposti dal conte di Halifax. “Non ci arrenderemo mai”. Era una chiamata alle armi, per spazzar via la gioia passeggera del recupero delle truppe a Dunkerque: “Le guerre non si vincono con le evacuazioni”.
A 66 anni era arrivato dove l’ambizione lo aveva sempre diretto, al numero 10 di Downing Street, e tutto quello che era finito nella lunga parentesi che aveva preceduto quel momento poteva finire in archivio: la ripartizione del Medio Oriente (sue erano le linee rette in cui era chiuso l’Irak appena partorito), gli interventi in politica economica, il severo atteggiamento tenuto, da Lord dello Scacchiere, durante lo storico sciopero dei minatori, l’atteggiamento tipico di un difensore dell’ordine imperiale nei confronti delle istanze di indipendenza del gioiello della corona, l‘India.
L’ora era sempre buia: il blitz tedesco su una Londra sempre più devastata ma capace di mantenere saldo lo spirito, la battaglia d’Inghilterra (“Mai nella storia così tanti dovettero tanto a così pochi”: quei pochi erano i piloti della RAF …), il senso di essere rimasti soli a condurre la lotta contro Hitler. La sua parte americana, derivatagli dalla madre, lo spinse ad assediare Roosevelt per avere aiuti, armi, mezzi e ad affrontare una traversata dell’Atlantico regno degli U-boot per incontrare il presidente, cantare i salmi al suo fianco sulla coperta della Duke of York.
Per il fronte del Nordafrica scelse Bernard Law Montgomery, lontano da lui per gusti, inclinazioni, carattere, e capì di aver fatto la scelta giusta. “I socialisti sono come Cristoforo Colombo: partono e non sanno dove vogliono arrivare” gli dettò la sua convinzione di conservatore, ma dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa, nell’estate del ’41, gli fu chiaro che in Russia la Germania si sarebbe dissanguata e finì per coltivare buoni rapporti con Stalin. Se Giorgio VI al Maresciallo inviò una spada d’onore, Winston accompagnò il dono reale con una pipa della Dunhill. Un alleato del genere valeva un cambiamento. “Il bolscevismo va strangolato nella culla”, aveva detto nel 1918.
Un sigaro dopo l’altro e una sfilata di copricapi: il mezzo cilindro, il casco coloniale, un colbacco d’astrakan, il berretto con visiera della Marina e quello della RAF, la feluca da Lord dei Cinque Porti. E il capo scoperto nei ritratti che lo hanno consegnato alla storia. Serio, pensoso, quasi accigliato: l’espressione di chi non può perdere tempo.
Il giorno della pace la famiglia reale lo volle sul balcone di Buckingham Palace. Era in abito scuro e, per una volta, non agganciò le mani al gilet, in uno dei suoi gesti più abituali. Alle elezioni che seguirono la fine delle ostilità ricevette una bocciatura che lo mise al tappeto. Il Paese finiva ai laburisti, guidati da Clement Attlee.
Winston era l’uomo delle situazioni intricate, della guerra non della pace, ma non era ancora fuori dal Grande Gioco e finì per diventare, ottuagenario, il primo premier della giovane sovrana. Poi, il fluire del tempo, il lento tramonto: i paesaggi che stendeva sulla tela, i soggiorni sul Cristina di Aristotele Onassis, l’espressione volitiva che perdeva forza.
Ebbe funerali degni del duca di Wellington ma un’ultima dimora dimessa, una pietra e un nome tra i fiori selvatici di Woodstock.
< Prev | Next > |
---|