I sentieri di Cimbricus / "Ali', booma ye, Ali', booma ye"
Martedì 12 Novembre 2024
Miriam Makeba era una maga che annunciava il fato, la colonna sonora era un jazz che scorticava, la notte era un sortilegio. Poco più di cinquant’anni fa la notte di Kinshasa, Rumble in the Jungle, il ritorno del re. Di Alì.
Giorgio Cimbrico
Era il 30 ottobre del 1974 e non s’è ancora spenta l’eco. Muhammad Alì è stato dentro la nostra vita, con il suo volto nel magnifico “Quando eravamo re”, con quello di Will Smith, ancora con il suo in un altro documentario “I am Alì” che suona come elogio funebre. Provocatore, intuitivo, dannatamente intelligente, sempre capace di portare dalla sua parte le passioni, le simpatie, gli amori.
Quando doveva incontrare Sonny Liston disse che non aveva paura perché quello era solo un grosso e goffo orso: quando la sua strada incrociò quella di Frazier, Joe diventò un gorilla senza stile. Cos’aveva a che fare con lui, ape e farfalla? E quando toccò a George Foreman, Alì si esibì per le telecamere, per i fotografi. “Guardate, lui va avanti così, uno zombie, un morto che cammina, una mummia. E io l’altro giorno ho disfatto una pietra, ho fatto piangere un mattone”.
Ma intanto si allenava a sopportare il dolore perché sapeva che quello George gli avrebbe dato, il dolore, ed era necessario allontanare la soglia. E quando il momento si avvicinò e lui capì sino in fondo quel che lo aspettava, si rese conto di quel che gli serviva, il doping ambientale, e così, quando dei ragazzini lo incontrarono in una di quelle albe africane che regalano un piccolo refrigerio prima che l’umidità avvolga e abbatta, e gli dissero “Alì, booma ye, Alì uccidilo”, lui rispose sì, lui avrebbe ucciso quel grosso leone che aveva tradito la “negritude” (così l’aveva battezzata Leopold Sedar Senghor: a volte anche la poesia riesce ad andare al potere), che era nero ma era come fosse bianco, che non era più un fratello e in Zaire era arrivato con un cane lupo, come i vecchi e spietati padroni belgi.
La notte di Kinshasa, il trionfo del dittatore Mobutu che non aveva badato a spese (10 milioni di dollari all’uno e all’altro), nacque in quell’alba livida: lui aveva la gente che ruggiva ed erano 60.000, un miliardo nel mondo. E chi c’era, i morti e i vivi, racconta che fu quanto di meglio si possa chiedere alla boxe, allo sport, alla vita, la volontà che diventa energia, come in Omero, in Shakespeare. I più grandi per Il Più Grande che sopportava il suo martirio, invitava a colpire più forte, sino all’ottava ripresa quando il verdetto si risolse in tre parole: “Foreman is down”.
Norman Mailer, che lo seguì a lungo, che fu con lui nel cuore di tenebra di Kinshasa, raccontava che Alì compose una delle più grandi e alte poesie della letteratura americana: capitò quando andò a parlare agli studenti di Harvard e quando il brusio si smorzò e giunse il silenzio, lui disse: “Io, voi” e in quelle poche lettere c’era la speranza di qualcosa di diverso, di un paese che non interpretasse solo il ruolo di gendarme del mondo, di complice di regimi orribili, che la nuova frontiera fosse sistemata sulla linea della dignità,, della tolleranza. L’avevano detto e scritto i Padri Fondatori che vollero Washington come una novella Atene. Perché qualcuno aveva tradito?
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