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Duribanchi / Gli ingannevoli miti del "politicamente corretto"

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Martedì 14 Ottobre 2024


venezia-antica 


“Non so se il post-comunista Marco Rizzo conosca Giorgio Baffo. Ma se non lo conosce dovrebbe leggerlo. Il veneziano non è poi così difficile. Tanto più che Baffo, per quanto estremo, a Venezia neppure fu il più licenzioso”.

Andrea Bosco

Pensieri “politicamente scorretti“, i seguenti: almeno secondo la corrente vulgata. Ha fatto rumore (non so più quanti articoli, per lo più indignati, in prima fila il “Caffè“ del veltroniano Massimo Gramellini che con garbo ogni settimana si addentra sulle pagine di “7” sui sentieri impervi dei crucci d'amore) l'uscita di Marco Rizzo (anti-capitalista, comunista con venature sovraniste), con la quale spiegava: “mi piace la gnocca e non mi dovete rompere le palle“. Gli hanno dato del macho, patriarcale, retrogrado, rozzo.

Oggi “gnocca“ non si può dire, altrimenti sei “politicamente scorretto“. Cito Gramellini: “Oggi una donna si è guadagnata ampiamente il diritto di potersi sentire una gnocca senza che nessuno si permetta di romperle le balle“. Oggi se dici ad una ragazza che è “uno schianto“, puoi essere accusato di molestie sessuali. E' evidente che certi apprezzamenti pesanti e volgari un tempo abituali che esponevano (e ancora espongono) le donne alla “pressione”, dei maschi, indicandole come oggetti di piacere, vadano censurati e condannati. Per dirla ancora con Gramellini: “la sensibilità dominante è diventata altra“.

Poi servirebbe fare i conti, onestamente, con l'evidenza. Rizzo indicando la “gnocca“, ha indicato contemporaneamente una donna piacente, oltre che certamente il suo organo sessuale. Ma ci sono vulgate insopprimibili. A Venezia per indicare una donna molta bella si dice, ancora adesso e senza scandalo, “ea xe un figòn“. Non c'è lubricità, non c'è offesa, non c'è intento patriarcale in questa affermazione. A Venezia il dialetto consente queste divagazioni. E se uno ti manda “in mona“ non significa che ti invita a fornicare. Significa che ti manda a quel paese.  

Il vocabolario concede vari sinonimi di “gnocca“: dagli abusati fica e figa (dialettale) agli anatomici “vagina” e “vulva“, all'infantile “passerina“, al toscano “sorca“, al siciliano “puchiacca“, al veneto “fritola“, fino a “fessa“, “fregna”, “potta“. In latino ficum significa frutto del fico. E la somiglianza tra la forma del ficum e l'organo sessuale femminile, ha certamente influito nella denominazione. Il revisionismo che vorrebbe cancellare tutto quanto non si vesta di “politicamente corretto“ vorrebbe spianare monumenti della letteratura quali Dante, Boccaccio, Ovidio, Eronda, Pietro Aretino, Apollinaire, quella scostumata Lady Chatterley descritta da David Herbert Lawrance. Magari anche certi affreschi di Pompei o le Demoiselles de Avignon di Picasso. E certamente, l'esplicito “l'origine del mondo“ di Gustave Courbet: natura femminile in primissimo piano, neppure depilata.

Dicembre 1960: un mio compagno in Quinta Ginnasio, veneziano come me, figlio di un ammiraglio, arriva nell'Istituto dove studiamo con due tomi neri, sottratti alla biblioteca di casa. Si chiama Ranieri (di nome) ed è un genio. Non fa sport, anche una corsetta lo sfianca, ma ha una capacità interpretativa sorprendente. E quindi le “Bucoliche“ di Virgilio “Tityre tu patulae recubans sub tegmine fagi“ le “allunga“ con “e una bea mona a rente e un pacchetto de Lucky Strike“. Ovviamente sotto al faggio descritto da Virgilio. Alla vista dei neri tomi che sembrano messali gli dico: “Hai scoperto di avere una vocazione?“. Ranieri non l'aveva avuta. Mi dice: “Dai un'occhiata“.

E' così che scopro i sonetti di Giorgio Baffo, poeta pornografico vissuto nel Settecento nella Serenissima. I veneziani per certe cose hanno sempre avuto una vera “inclinazione“. Il sestriere delle Carampane, una sorta di Soho nata nel Cinquecento dove è edificata anche la mia casa paterna a pochi passi (incredibile a Venezia la toponomastica) dal “Ponte delle tette“, lo testimonia. Sulla facciata del palazzo di Baffo in Campo San Fantin, Venezia ha fatto apporre una targa commemorativa. Baffo era un patrizio che preferiva le attrici (come la Buranella, madre di Casanova) e le serve (domestiche, per non passare per reazionario) alle nobildonne. Che peraltro si litigavano i suoi irriverenti sonetti: crudi e realistici.

Baffo pare sia morto sifilitico nel 1768. Anche se nel suo epitaffio c'è scritto: “Provectior factus, nullo taedio afficebatur“. Insomma: divenuto anziano, non era afflitto da alcuna malattia. Pare fosse mite e che (incredibilmente) parlasse con pudore. In vita, le sue opere non furono mai pubblicate. Baretti lo fustigava, Goldoni lo dileggiava, solo Casanova, che in gioventù lo conobbe, ne parla con affetto nelle sue memorie. Tre anni dopo la sua morte alcuni amici diedero alle stampe una selezione semi-clandestina di 200 suoi sonetti.

E solo nel 1789, su iniziativa di un lord inglese, fu stampata l'edizione di “Cosmopoli”. Testo sepolto alla Biblioteca Marciana a San Marco: accessibile per molto tempo solo agli studiosi. Fino al 1971 quando Mario Monti, squisito editor della Longanesi ne pubblica 1500 copie tirate in finissima carta d'India ispirate all'edizione originale. La numero 524 (in due volumi) è in uno scaffale della mia biblioteca. Immergersi nelle liriche, dallo stile petrarcheggiante (che Appollinaire venerava) del “patrizio scalcagnato“ – come lo definì Diego Valeri –, è calarsi in un percorso quasi mistico.

Per me ragazzino, leggere la “Lode alla mona“ dai tomi del mio compagno Ranieri fu come finire “all'inferno e tornare“. Nel nostro Istituto eravamo in 700. Rammento ancora il mio numero di matricola: 321. In breve: facemmo di quelle incredibili poesie, un commercio. Le fotocopie delle liriche impresse nei tomi che Ranieri aveva portato da casa, andavano a ruba. Chi non capiva il veneziano se lo faceva tradurre: tassa, in sovrappiù, qualche sigaretta. Un giorno una fotocopia finisce nelle mani del nostro professore di francese che era uomo di mondo. Se la rise e disse: “E' una valida istruzione sessuale“.

Erano tempi, quelli, nei quali per “imparare“ arrivati ai 18 anni si andava nelle “case“. Che giustamente la senatrice Merlin fece abolire. Ma che all'epoca erano una istituzione sociale dove si veniva “iniziati“. Anche se molti uomini finivano poi per considerarla come una seconda casa. Venezia ha una storica tradizione in fatto di bordelli. E di prostitute bellissime e coltissime. Come accadeva con le etere nella Atene di Platone e Socrate.

“Cara mona che in mezzo a do colone / ti xe là messa come un capitelo / per cupola ti ga do culatone/ e ‘l bus del cul sora xe 'l to cielo”. Centinaia di sonetti: tutti del medesimo tenore. Mai avrei pensato che nel 2002 Cristina Taverna – pubblicando per le Edizioni Nuages, una selezione dei sonetti di Baffo, corredati dalle meravigliose illustrazioni di Hugo Pratt (amico di entrambi) realizzate nei bordelli di mezzo mondo –, mi avrebbe affidato la prefazione. Con un poco di pudore mi cito: “La donna come magia, come desiderio, occasionalmente come punizione. Divinità nella quale l'organo sessuale femminile (mona, potta, checca, sfesa) in una trentina di differenti colorite accezioni, diventa l'essenza stessa del divino“.

La “donna“ di Baffo che circolava clandestina al caffè Grizoni a Santo Stefano o alla Malvasia Lazzaroni in Frezzeria in fondo è Venezia: la Grande Femmina ormai segnata dalle rughe, che nel Settecento aveva perso l'esplosiva bellezza di un tempo. Non so se Rizzo conosca Giorgio Baffo. Ma se non lo conosce dovrebbe leggerlo. Il veneziano non è poi così difficile. Baffo, per quanto estremo (“parlava come una vergine e scriveva come un satiro“ disse di lui Ginguenè), a Venezia neppure fu il più licenzioso. Il primato – concordano gli storici – va assegnato a Angelo Maria Barbaro con la sua “Anna Erizzo in Costantinopoli“. Relata refero: io non l'ho mai letta. Per quanto abbia fatto, non sono mai riuscito a trovarne una copia.

 

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