I sentieri di Cimbricus / Addio alla Signora, addio alla Divina, ...
Lunedì 7 Ottobre 2024
… come la battezzò Gianni Clerici, che aveva classe, carattere, charme, eleganza, la giusta dose di snobismo, per farne quella che è stata: una protagonista, un volto e una voce che ci hanno accompagnato, un evo dopo l’altro.
Giorgio Cimbrico
Lea Pericoli se n’è andata a 89 anni ma era già nella storia di quell’arte non minore che è la moda: al Victoria and Albert di Londra, maxi-scrigno di tutta la creatività umana, accanto ai capolavori dell’arte orientale, ai cartoni di Raffaello, a certi azzardi del design e ad abbozzi usciti dalle mani di Michelangelo, sono esposte le invenzioni che per lei immaginò e realizzò Ted Tinling: la culotte e la sottoveste rosa che fecero infuriare il severo papà Filippo.
Non lo faceva per interesse, per convenienza, come capita oggi quando ogni marchio è un rivolo di denaro. “Il tennis mi ha dato tutto meno i soldi”, rimane uno dei suoi sinceri memorabili. Gusto dell’eccentrico? Voglia di stupire? Propensione per l’eleganza che mai l’ha abbandonata?
Possono coesistere molti elementi nel cocktail miscelato nei lunghi, intensi anni vissuti da Lea, milanese per nascita, africana per crescita, ad Addis Abeba, al fianco del padre che, finito nella realtà del giovane ed effimero Impero, conosce un giovane e magro ufficiale dai tratti decisi e dal carattere ferreo, Indro Montanell, compagno di caccia alla lepre sulle ambe dell’Africa Orientale.
Lea è bambina quando, al crollo del fragile edificio imperiale segnato dalla resa dell’elegante principe Amedeo all’Amba Alagi, il padre finisce nel campo di concentramento di Dire Daua (successivamente perdonato dal Negsu, diventerà concessionario della FIAT, dell’Olivetti e della Piaggio) e dall’Etiopia la rotta di vita la conduce a Nairobi, per essere educata in un collegio di suore. La prima racchetta – in legno, naturalmente - è un dono del padre, i primi insegnamenti, al rientro in Italia per una vacanza, sono viareggini, del padre di Paolo Bertolucci. Come Karen Blixen, la sua Africa finisce lì.
Il tennis femminile è molto diverso da quello d’oggi: gli scambi non sono lunghi né violenti e la risoluzione può venire dall’invenzione di un lob, un pallonetto. Lea è padrona del gesto ma, a rivedere vecchi filmati delle piccole-grandi imprese in doppio con la compagna e amica Silvana Lazzarino, può essere ammirata anche nel suo improvviso arrembare sottorete, nei tempi giusti e grintosi per chiudere uno scambio. Senza i gemiti e i rantoli ormai così diffusi tra le amazzoni del nostro tempo.
Dal 1955 inizia a frequentare il grande giro per un periodo che si protrarrà appena dopo la nascita di una nuova dimensione, quella del tennis professionistico. L’approdo agli ottavi del parigino Roland Garros e di Wimbledon capiterà in sette occasioni distribuite nell’arco di quindici anni. All’interno di questa lunga parentesi, i quarti in doppio, a Church Road, nel misto, con Orlando Sirola, quando lo scontro sarà con la coppia Seixas-Hart, destinata alla vittoria.
In un tennis molto americano, molto australiano, ancora poco aperto ad un’ecumenicità che diventerà palese nelle generazioni che verranno, non è facile arrivare al sesto, al settimo match di uno slam.
In questo lungo lasso di tempo, Lea costruisce il suo record statistico di vittorie nei campionati italiani: alla fine saranno 27 nel singolare, nel doppio e nel doppio misto, l’ultima in coppia con un giovane Adriano Panatta.
Lea non si è mai arresa a quelli che Amleto chiamava gli strali della sorte. Prima dei quarant’anni è stata colpita da un cancro all’utero. Nel 2012 il nemico si è fatto di nuovo vivo colpendola al seno. Ancora uno scontro a viso aperto, per trasformarsi nella prima testimonial nella lotta contro le malattie che devastano il corpo e l’anima delle donne. “Chi cerca di diventare u campione, deve affrontare una battaglia”: a lei è capitato sulla terra, sull’erba, nella vita.
Non si è mai arresa e non si è mai fermata. E’ stata chiamata da Montanelli a scrivere di tennis al Giornale, è diventata la prima telecronista e certi suoi commenti – un esempio, quello sui morbidi baffi di John Newcombe – sono diventati memorabili, come quelli di Niccolò Carosio o di Paolo Rosi. E nella sua seconda vita ha saputo metter le mani anche su un Telegatto, per “Carta Bianca”.
Nel 2009 era Genova, per Italia-Svizzera di Coppa Davis, la tre giorni di Roger Federer a Valletta Cambiaso. Era, al solito, perfetta: un vestito chiaro, sul “creme”, i capelli biondi composti in un’onda non aggressiva, una voce educata come il suo inglese, un’applicazione sincera, entusiasta al mestiere di cronista. Nessuna artificiosità da primadonna, molta disponibilità.
“L’ho saputo tre minuti dopo che se n’è andata. E’ stata un’amica e una sorella”, il ricordo di Nicola Pietrangeli ha la brevità della commozione sincera.
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