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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / La fiera storia di Wielfried von Watussi

Giovedì 12 Settembre 2024

 

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“A dar corpo e significato ai miei studi, un grande apporto venne dallo sport e in particolare dall’atletica che ho sempre amato, capace di fornirmi infiniti esempi sulle mie teorie che oggi non sono più tali.”

Giorgio Cimbrico

Prima di inoltrarmi nell’illustrazione dell’opera che ha segnato e dato un significato alla mia esistenza – “De superioritate obscurae epydermidis e de phenomenon mirabile singularis copulae” – devo richiamare la Vostra attenzione – ahimè, anche a lungo, – non tanto sulle origini di questo mio lavoro quanto sulle mie personali e di chi mi ha messo al mondo.

Agli albori del XX secolo mio padre, il barone Wilfried von Breitenfeld, antropologo laureato all’Università di Berlino, intraprese un viaggio che attraverso la allora Africa Orientale Tedesca, poi conosciuta come Tanganyka, lo portò, seguendo coscientemente o per caso il cammino di Speke e Burton, ad entrare in contatto con una popolazione di formidabile aspetto che lui descrisse, nei pochi appunti di cui venni in possesso, come di origine nilotica e dedita alla pastorizia.

Impressionato dagli usi, dai costumi e dall’aspetto di quella comunità, mio padre licenziò il suo piccolo seguito e si stabilì tra quelle montagne per approfondire lo studio della popolazione dalla quale era stata accolto con grande cordialità

Sempre basandomi su quel poco che risulta dai resti del suo diario, egli conobbe e amò una delle figlie dei capi, Okuta. Secondo i suoi calcoli, io dovrei esser nato nel 1908, ma la data non è sicura. Di sicuro c’è che le sue annotazioni terminano con la data del 1911 e con confusi accenni sul suo stato di salute: le febbri stavano avendo la meglio.

I miei primi ricordi non lo comprendono. Comprendono invece la vita nel kraal di mio nonno e la presenza di mia madre, una donna di grande bellezza da cui avrei ereditato la statura, i lineamenti e la pelle ambrata. I capelli castano tendenti al biondo e gli occhi azzurri erano quelli dei Breitenfeld, piccola nobiltà di radice sveva, con un ramo che, secoli prima, aveva abbandonato le terre d’origine per cercar fortuna e un feudo prima in Ungheria, poi in Transilvania.

Truppe indigene sotto il comando di ufficiali tedeschi perlustrarono la zona nella tarda estate del 1914 per individuare infiltrazioni dal Nyasaland e un giovane alfiere, Hubert Urdigen, provò sorpresa nell’imbattersi in un bambino dalie singolari caratteristiche. Provò a chiedere spiegazioni, e l’unico aiuto che mia madre Okuta riuscì a fornirgli furono la semplice tomba nella quale riposavano i resti di mio padre e quel diario sbrindellato al quale accennavo.

Hubert agi come ci si poteva aspettare da un giovane ufficiale frutto di una ferrea disciplina: era davanti a una singolare creatura ma le prove che aveva tra le mani sostenevano che quel bambino era figlio di un barone tedesco. Mi strappò a mia madre, mi consegnò a un asilo per orfani di Dar es Salaam e di lui non seppi più nulla sino a quando mi venne comunicato che era morto, al comando del suo gruppo di ascari, combattendo a Tanga contro truppe indiane.

Nel 1918, al momento dell’armistizio e della caduta del Kaiser (l’immagine dell’Imperatore incombeva nella nostra mensa), venni rimpatriato in Germania. Rimpatriato non è un’espressione corretta – ero un africano per metà tedesco – ma oscuri e per me incomprensibili percorsi burocratici mi portarono in un villaggio nei pressi di Stoccarda. Lì venni accolto da Gustav von Breitenfeld, mio nonno. Se abbia provato affetto per me, rimane un mistero. Più che austero, era un uomo riservato e piegato più volte dalla sorte: prima la scomparsa della moglie, poi quella del figlio, ora la caduta del Kaiser, una presenza rassicurante.

Mi sistemò in un collegio di Stoccarda e tornai ad avere suo notizie sei anni dopo, quando frequentavo il ginnasio: era morto lasciandomi un vitalizio e il titolo di barone che nella repubblica di Weimar non aveva significato. Ebbi una buona valutazione finale e nel congedarmi l’istruttore di educazione fisica, che in gioventù, durante missioni militari nell’Impero sparito aveva approfondito tecniche esotiche e ignote, ebbe per me parole di incoraggiamento. “Raramente ho visto un giovane con le sue potenzialità”, mi disse stringendomi la mano, un gesto non da tutti usato nei miei confronti.

Andai a Berlino e mi iscrissi alla stessa università frequentata da mio padre: l’antropologia non poteva che essere la mia strada. Non ne rappresentavo un anello di una lunghissima catena? Di un’evoluzione possibile? Il mio ottimismo andò a scontrarsi con la realtà: se nelle strade le SA potevano dar sfogo alla violenza, all’università iniziavano a farsi largo teorie sulla superiorità della razza bianca. Ariana, dicevano. E questo strano Wilfried – per di più barone – veniva accuratamente evitato.

Frequentavo il campo della Union Berlin e lì non correvo il rischio dell’isolamento. Più che incuriositi dal mio aspetto, gli altri giovani ne erano ammirati. E certi miei exploit nel salto in alto richiamarono l’attenzione di un paio di allenatori. Mi domandarono dove avevo imparato a saltare in quello strano modo e io, per rispondere, fui costretto a un riassunto della mia venuta al mondo e dell’infanzia nelle Montagne della Luna. “Saltavano così i fratelli di mia madre e tutti gli altri giovani della comunità. All’inizio dell’estate era il momento delle danze e delle competizioni. La vittoria era premiata con una giovenca”. I due tecnici erano increduli: “Tu non accenni minimamente la forbice, né ad attaccare con una gamba”. “E’ vero. Sviluppando velocità in rincorsa e dando poi la schiena all’asticella, è possibile ottenere un’azione ascensionale più netta, più decisa”. I due scrollarono la testa.

Appena dopo che il partito nazionalsocialista prendesse il potere, radunai il mio piccolo patrimonio ed emigrai ni Gran Bretagna. Fu lì che, guardato con minor curiosità di quanta ne avevo suscitato in Germania, proseguii gli studi vivendo, negli anni a venire, un’esperienza che si sovrapponeva all’esistenza stessa: quindici anni dopo il mio arrivo, al tempo dell’Olimpiade del 1948, Londra iniziò a diventare multietnica e di lì a poco a dar vita a quel processo che a quel tempo finì sotto l’etichetta di “meticciato”. Lo stesso capitava a Parigi, ad Amsterdam, a Bruxelles, negli Stati Uniti malgrado una virulenta resistenza all’integrazione.

A dar corpo e significato ai miei studi, un grande apporto venne dallo sport e in particolare dall’atletica che ho sempre amato, capace di fornirmi infiniti esempi sulle mie teorie che oggi non sono più tali. E’ per questa ragione che firmo questa opera, che mi è costata fatica e gioia, con il nome che ho scelto e che mi appartiene: Wilfried von Watussi.

 

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