Piste&Pedane / "Gimbo" ovvero la resurrezione della tenacia
Lunedì 26 Agosto 2024
“Per tre anni ho fatto di tutto per difendere il mio titolo, ma ho perso l'occasione. Qui mi sono presentato, anche se non ero al meglio, ho cercato di combattere. Questo è sempre importante: non avere paura di perdere”.
Daniele Perboni
Peluria sul viso, enorme ego e fiducia in se stessi, aspetto ascetico (così uno lo hanno sempre dipinto…), instancabili, nelle prediche uno, nel saltare l’altro (e in alto)? Ah dimenticavamo la miracolosa rinascita. Per rispondere al punto interrogativo apparso sui vostri volti, vi avvisiamo che non abbiamo nessuna intenzione di tediarvi con una tesi, l’ennesima, su religioni, divinità, culto o credenze.
Cerchiamo solo di scoprire che cosa possono avere in comune due tizi che non si sono mai incontrati. E come potevano? Il più anziano dovrebbe avere, più o meno, duemila anni, l’altro trentadue e un paio di mesi, certificati su carta bollata.
Beh, la barba sicuramente. Qualche volta il trentaduenne di radici marchigiane, se la rade. La barba. Ma solo a metà. Si narra che così facendo voglia scacciare folletti e troll che possono annidarsi pericolosi fra quei peli, appesantendo il corpo che deve vincere la gravità, andando possibilmente oltre un’asticella malmessa su due appoggi. L’altro, chiamato il Nazareno (che non c’entra nulla con il “Patto del Nazareno”, accordo siglato fra il comunistone Renzi e il demo/social/destrorso/centrista Berlusconi…) pare non l’abbia mai rasata. Le fonti fotografiche sono rarissime. Non s’usavano selfie e roba del genere allora.
E i capelli dove li mettiamo? Neri, e mossi, per entrambi. Poi la voglia, quella tanta, di predicare il “verbo”, viaggiando anche a dorso di mulo. Ma solo per quel palestinese di tant’anni fa. Quello più moderno viaggia con un motore sotto le chiappe e vola, accidenti se vola. Per spostarsi ma anche per imporre la sua legge. Quella del più forte, del più bravo, del più tenace.
Del signor Nazareno si son perse le tracce materiali. È rimasto nella memoria collettiva che ancora lo venera. Lui, madre, padre e tutti i suoi discendenti e discepoli.
La morte apparente di Gianmarco, sempre sportiva – chiariamo –, avviene in quel di Parigi. Tutti ne siamo stati informati: calcoli renali, una, due volte; il primo trasporto in ospedale, ancora in Italia; la seconda corsa al pronto soccorso parigino; la drammatica qualificazione; la finale in condizioni fisiche che meglio lasciar stare. Il Gimbo che piange in mondovisione, si dispera inconsolabile fra le braccia della moglie e degli amici. Ma i Giochi continuano. Devono continuare. Neppure avvenimenti più drammatici le hanno fermate.
Passano i giorni, quindici per la precisione. Ed eccoci al punto cruciale: la nuova nascita di Gimbo, la rinascita del mezza barba, che tutti chiamano e conoscono come Gianmarco “Gimbo” Tamberi. Rinascita in termini sportivi naturalmente. Per quella dopo la morte meglio lasciare la parola agli esperti. Altro campo, dove non ci avventuriamo.
Succede un caldo pomeriggio di fine agosto, in un’arena polacca, più precisamente della Slesia, regione dell’Europa centrale. Lui, Gimbo, è chiamato nuovamente ad esprimersi su quello che meglio conosce: saltare. In alto. Il più possibile.
Avversari tosti che non si fanno intimidire da quell’allampanato e magro italiano che ha già vinto tutto quel che si poteva vincere, ha attraversato deserti insidiosi lasciandosi alle spalle enormi delusioni.
Inizia la gara a 2.14 – Gimbo “passa”. I più pericolosi Beckford (Jam), Doroshchuk (Ukr) e Woo (Kor) non si fidano e saltano.
Asticella a 2.18 – Per i tre è buona la prima. Dramma Tamberi: due nulli. Addio sogni di rinascita. Eeeh vi piacerebbe, ditelo. Quello non ci sta e alla terza eccolo al di la del muro.
2.22 – Taac alla prima per tutti. Se ne accorgono in pochi, ma qui al terzo nullo si perde anche il fresco campione olimpico, il neozelandese Hamish Kerr che chiude anche dopo Stefano Sottile.
2.26 – L’ucraino e il coreano sbrigano subito il compito, mentre al giamaicano serve la terza prova. E Gimbo? Il secondo tentativo è buono.
2.29 – Perfetto Beckford; alla seconda Doroshchuk; alla terza Woo. Tamberi sballa la prima e, sorprendendo tutti, si tiene le restanti due prove per la misura superiore. Facce stralunate in pedana. Ma come, sembrava finito, stanco, senza energia e questo che fa? Sarà mica matto!
2.31 – Beckford è fuori. Doroshchuk due nulli, risparmiando il terzo tentativo per i 2.33. Se gli va bene vince.
Quando è il suo turno il mezzabarba chiede silenzio a tutto lo stadio che tifa per lui. Viso contratto, quasi un’espressione di delusione. Nullo al primo. Secondo tentativo. Si carica urlando, guarda l’asticella. Sembra guardarsi allo specchio come De Niro in Taxi Driver (Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi, con chi stai parlando? Dici a me? Eh, non ci sono che io qui. Di, ma con chi credi di parlare tu)? E parte la rincorsa. L’asticella impaurita se ne sta sui ritti impalata senza muoversi. Lo stadio esplode.
È finita, ha vinto! È un grande, è forte, è rinato come rinasce il ramarro batte Beckford, Doroshchuk, Woo canterebbe Lucio Dalla.
No, non è finita. Il ramarro chiede i 2.38! E poi i 2.40 che sarebbe record italiano. Ma finisce a 2.31.
«Dopo le Olimpiadi mi sono sentito distrutto. È stato come perdere una persona cara – così Tamberi nell’intervista di rito – Per tre anni ho fatto di tutto per difendere il mio titolo, ma ho perso l'occasione. Qui mi sono presentato, anche se non ero al meglio, ho cercato di combattere. Questo è sempre importante: non avere paura di perdere, anche se si ha una giornata no. Cerco sempre di superare i miei limiti, il mio problema è che a volte la mia mente non è lì. Anche oggi ho avuto salti buoni e cattivi, e ho sbagliato due volte a 2,18. Ci vorrà tempo per ritrovare me stesso dopo Parigi».
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