Pensieri in barca / Il ritorno dell'uomo che non conobbe rivali
Mercoledì 21 Agosto 2024
“Tanto imbattibile sul campo, quanto anti-personaggio fuori. Seguiva tutto, conosceva tutti, era capace di complimentarsi con un giovane esordiente alla sua prima gara, ma per il resto era di pochissime parole e lunghissimi silenzi.”
Gianluca Barca
A 68 anni, Ingemar Stenmark, forse il più grande sciatore di tutti i tempi, sicuramente il più bravo se parliamo di slalom e slalom gigante, ha preso parte nei giorni corsi ai campionati mondiali Master di salto con l’asta, disputati a Göteborg, classificandosi quinto con la misura di 3 metri, poco meno della metà di quanto il sui connazionale Armand Duplantis ha saltato a Parigi aggiudicandosi la medaglia d’oro olimpica.
Nato il 18 marzo del 1956 a Tarnaby, un paesino del nord della Svezia (lo stesso dove venticinque anni dopo nascerà Anja Paerson, vincitrice a Torino dello slalom olimpico 2006), Ingemar Stenmark fece un anonimo esordio in Coppa del Mondo a soli diciassette anni, nel mese di dicembre del 1973 a Val d’Isere: quarantaseiesimo a tredici secondi da Hansi Hinterseer. La settimana dopo, però, a Saalbach, al secondo appuntamento, era già nono, a meno di quattro secondi dal vincitore l’austriaco Berchtold.
Erano i giorni in cui in Italia si celebravano i fasti della Valanga Azzurra, con Gros, Thoeni, Stricker, Schmalzl e Pietrogiovanna ai primi cinque posti del gigante di Berchtesgaden, una gara passata alla storia. Stenmark era un biondino svedese ancora lontano dalle luci della ribalta. Un anonimato nel quale “Ingo” però restò poco: al terzo confronto con i grandi della sua carriera, si era nel frattempo arrivati al mese di marzo 1974, dopo i Mondiali di Saint Moritz, quelli in cui Thoeni vinse slalom e gigante, Stenmark era già sul podio: terzo fra le porte larghe, a Voss, in Norvegia, dietro Gustavo e Hinterseer. Il giorno dopo fece pure meglio: secondo in slalom alle spalle di Piero Gros.
Poi, mentre da noi si celebrava un anonimo Festival di Sanremo presentato da Corrado e Gabriella Farinon e vinto da una canzone finita presto nel dimenticatoio (“Ciao cara, come stai?” di Iva Zanicchi), lo svedese fu due volte secondo sui monti Tatra, in Polonia. Troppo lontani perché il pubblico, preso da altre due vittorie di Thoeni e Gros, si accorgesse di lui. La fama, però, era dietro l’angolo: il primo successo arrivò a Campiglio, dicembre 1974. Da quel momento in poi la sua ascesa fu inarrestabile: in slalom, 83 gare, tra la fine del 1974 e il gennaio 1984, con 37 vittorie e 27 piazzamenti tra il secondo e il terzo posto! In gigante, tra il mese di marzo del 1975 e il febbraio ’82, 60 gare, 36 primi posti e 14 volte sul podio.
Gustavo Thoeni fece appena in tempo ad aggiudicarsi la sua quarta ed ultima Coppa del Mondo –, quella del famoso parallelo della Val Gardena, nella primavera del 1975, lui contro Stenmark, in un duello finale diretto, senza precedenti –, poi la scena, per quasi dieci anni, fu tutta dello svedese. Il quale si aggiudicò la Coppa nel 1976, nel 1977 e nel 1978. Una superiorità straripante: a cavallo tra il 1977 e l’80 Stenmark vinse 22 gare di gigante delle 26 a cui prese parte, comprese Olimpiadi e Mondiali. Lo svedese era talmente più bravo degli altri che la FIS, la Federazione internazionale, si sentì in dovere di porre un limite al suo dominio in Coppa del Mondo: cambiò i regolamenti e cercò di premiare, almeno per quanto riguarda la classifica generale, gli atleti che disputavano più specialità, non solo i due slalom.
Ne venne fuori un pasticcio imbarazzante: nel 1979 la Coppa andò allo svizzero Peter Luscher che in tutta la stagione si era aggiudicato tre gare, uno speciale e due combinate, contro le tredici di Stenmark. A Courchevel, in gigante, “re Ingemar” lasciò il secondo classificato, proprio Luscher, a 3 secondi e 73/100 di distacco. Qualche settimana dopo, lo sloveno Krizaj finì secondo addirittura a 4”! Nel 1982, a Kitzbuhel, in slalom, Phil Mahre beccò 3” e 19.
Stenmark era tanto imbattibile sul campo, quanto anti-personaggio fuori dalle gare. Seguiva tutto, conosceva tutti, tra lo stupore generale era capace di andare a complimentarsi con un giovane esordiente che, magari, era arrivato venticinquesimo alla sua prima gara, ma per il resto era di pochissime parole e lunghissimi silenzi. Christian Neure Uther, suo avversario, e Rosi Mitterie, campionessa olimpica a Innsbruck 1976, marito e moglie, un’estate, andarono a fargli visita a casa, a Tarnaby. “Ci presentammo senza preavviso – raccontarono divertiti –, lui ci fece entrare senza fare una piega, stava guardando una partita di hockey in TV e andò avanti come se niente fosse. Ci volle mezz’ora per sentirgli dire la prima parola”.
Gli stessi silenzi replicò a Salen dove, a marzo del 1989, gli fu organizzata la festa di addio alle gare. In quell’occasione furono premiati Ermanno Nogler, tecnico gardenese, l’allenatore che lo aveva seguito per tutta la carriera, e lo ski-man sloveno che la Elan, la marca di sci a cui restò sempre fedele, gli aveva assegnato dopo i primi successi. Ingemar, sul palco, davanti a un pubblico di ospiti ed ex campioni non spiccicò una parola, l’aria assente di uno lì per caso. La stesa aria con la quale oggi lo si incontra talvolta sulle piste dove accompagna turisti e clienti di grossi marchi commerciali internazionali.
Grande giocatore di golf, con residenza a Montecarlo, ha avuto successo anche in Giappone, dove stravedono per lui e ancora lo pagano a peso d’oro.
Nessuno ovviante ha mai saputo strappargli il segreto dei suoi successi: qualcuno diceva la sensibilità acquista sciando a Tarnaby, vicino al circolo polare, dove la poca luce dell’inverno artico obbligava a sviluppare una capacità particolare di “sentire” il terreno con i piedi.
Nogler puntava il dito sul suo spirito competitivo senza eguali. “Tracciavo uno slalom- raccontava l’allenatore – e glielo facevo fare un paio di volte. Poi, mentre lui risaliva, angolavo qualche porta, per renderglielo più difficile. Andavamo avanti così per ore, in una specie di gara a chi mollava prima”.
Stenmark era anche un meticoloso, pignolo, capace di sottoporsi a trattamenti da fachiro pur di trovare la perfezione: una volta a Heavenly Valley, negli Stati Uniti, per raffreddare la plastica degli scarponi, che la temperatura elevata aveva, secondo lui, ammorbidito troppo, se ne stette per quasi un’ora, prima della gara, infilato fino al ginocchio in una buca di neve. Non sentiva il freddo e pareva non soffrire mai delle condizioni del tempo, bello o brutto che fosse.
Per i puristi, resta il rammarico di non averlo visto impegnato nelle prove di velocità. Non amava la discesa libera e, quando nell’estate del 1979 decise di provare ad allenarsi anche quella specialità, fu una caduta in Val Senales, nel mese di settembre, a farlo recedere da quell’azzardo: nell’incidente riportò un trauma cranico e fu costretto ad alcuni giorni di ospedale.
L’unica cosa che, ad un certo punto, parve complicargli la vita fu il matrimonio andato male con la hostess Ann Uvahgen. Divorziò dopo essere finito più volte sulle pagine dei rotocalchi scandalistici svedesi, assetati di gossip su di lui e Bjorn Borg, altra leggenda sportiva del paese. Finì la carriera nel 1989, l’ultima gara a Shigakogen, in Giappone. Il pubblico lo vide lasciare la zona del traguardo come un turista qualsiasi, sci ai piedi verso il parcheggio, la nuova fidanzata a cavallo sulle spalle.
Trentacinque anni dopo, Ingemar vola ancora. Se si somma la misura del salto con l’età, forse la misura farebbe invidia anche a Duplantis.
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