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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / L'uomo che poteva volare

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Lunedì 29 Luglio 2024

 

beamon

Cresciuto orfano e solo, quei soldi gli occorrevano per scoprire l’origine della sua famiglia. L’unico mezzo per averli era affidare a Christie’s la medaglia d’oro del Messico: gli resterà pur sempre il fantasmagorico 8.91 del record.

Giorgio Cimbrico

Bob Beamon non ha più la medaglia d’oro ma il record olimpico sarà suo per sempre: 8.91 è un osso di megalodonte duro da rodere in un mondo dove anche su un trampolino come quello allestito all’Olimpico un maestro di tecnica come Miltiades Tentoglou può atterrare a 8.65, non più in là. Bob, classe 1946, non ha più la medaglia perché qualche mese fa l’ha messa all’asta affidandosi a un nome importante come Christie’s.

Tra i lotti, un arazzo Luigi XIV, un quadro dipinto da uno dei Beatles. La medaglia di Bob è stata valutata 351.000 sterline, 400.000 dollari abbondanti. “Tra diritti d’asta, tasse, etc, non so quanto gli verrà in tasca. Comunque ha deciso così”, ha commentato John Carlos che non si è mai staccato dal compagno di una lontana, memorabile avventura.

La decisione può esser nata dopo l’indagine che sei anni fa Bob ha intrapreso per conoscere le radici della sua famiglia. Cresciuto orfano e solo, voleva sapere qualcosa di più sulle sue origini. E così venne fuori che, per parte di padre, aveva una sorella, un fratello, nipoti, cugini. Forse un po’ di quei quattrini serviranno a dare una mano per mandare qualcuno al college.

Dopo esser vissuto in Florida e aver scoperto la pittura e la grafica, oggi Bob si è trasferito a Myrtle Beach, South Carolina. Ogni tanto va a New York a suonare con i suoi amici, jazzisti di razza, da Grammy Award. Qualche mese fa è uscito un album, “Olimpik Soul”. Bob suona lo strumento che ha sempre amato, la batteria. “Ho conosciuto Max Roach”, dice con un certo orgoglio.

New York è la sua città natale: il quartiere è South Jamaica, nel Queens: i quartieri alti sono molto lontani. Il padre muore di tubercolosi prima che lui venga al mondo, la madre otto mesi dopo la sua nascita. Finisce in una famiglia adottiva con un padre violento e ubriacone. Preferisce andarsene e andare da nonna Bessie.

“Ho visto molti della mia generazione andarsene per la droga”: non è un verso di Allen Ginzberg, sono parole di Bob, cresciuto per le strade di Giamaica, quando eroina e LSD stavano prendendo il sopravvento. L’atletica era lontana: “Sognavo di diventare un Globetrotter”. Il basket rimarrà un pensiero fisso: dopo la vittoria olimpica, la presenza in un draft e un provino per i San Diego Conquistadors, finito male.

Lo scopre Larry Ellis, a New York un allenatore famoso, dopo che Bob aveva passato un periodo in una casa di correzione per un fortuito incidente a scuola. “Con quelle gambe…” pensa Ellis. Bob non è entusiasta ma come capita spesso ai campioni o a cantanti famosi, è la febbre di un compagno a lanciarlo: lui era la riserva. Salta 5.70 (“19 piedi” precisa lui) e vince la garetta. “Mi diedero una medaglia e questo fu l’inizio”.

Appena prima dei 19 anni ottiene una scholarship (una borsa di studio) per la Texas Western di El Paso. “Sono gli anni del Black Power, del Black Pride, del Black is Beautiful”, racconta del suo coinvolgimento in questo risveglio e nella lotta per i diritti civili. Quando Texas Western si trova a che fare con Brigham Young, l’università dei mormoni, è uno di quelli che guidano il boicottaggio. Si ritrova senza più borsa di studio, senza allenatore e i Trials non sono lontani e lui alle spalle ha 22 vittorie in 23 gare.

Carlos, che comincia a fargli da mentore, gli dice di star calmo, di non preoccuparsi. “Vedrai, una mano te la darà Ralph”. In quel momento Ralph Boston è il primatista mondiale, in coabitazione con il sovietico-armeno Igor Ter-Ovanesyan, detto il principe Igor. Ralph ha saltato 8.35 a Modesto, nel ’66; Igor la stessa misura alle preolimpiche di Mexico City del ’67. “Che l’altitudine potesse dare una forte mano l’avevo capito in quel momento e poi prima dell’Olimpiade, ai campionati sovietici di Leninakan, 1500 metri sul livello del mare. Feci misurare un nullo: era 8.67”. Ai Trials di Echo Summit, Sierra Nevada, California, stessa altitudine di Mexico City, 2250 metri, Bob atterra a 8.39 con 3,2 di vento a favore, Boston a 8.26 con +5.0.

Il 17 ottobre si qualifica alla finale più o meno come Jesse Owens a Berlino: nullo, nullo, 8.19 dopo l’intervento di Boston che nel frattempo è andato a 8.27, record olimpico. Ter Ovanesyan entra nei 12, da dodicesimo, 7.74. C’è anche il gallese Lynn Davies che quattro anni prima, a Tokyo, in una giornata di vento mutevole, aveva trovato il suo giorno die giorni.

La cronaca della finale può essere smilza o chilometrica: al primo salto Bob vola e atterra come un pterodattilo. Se nel XX secolo qualcuno ha fotografato il miliziano morente, ora qualcuno fotografa l’uomo volante. Il visore ottico non è stato tarato per una misura del genere e così si ricorre alla rotella. Le cose vanno per le lunghe. “Ehi, nonno, qui facciamo Natale”, dice Boston ad Adriaan Paulen, presidente della giuria d’appello e più tardi presidente della IAAF. Finalmente sul tabellone appare la misura: 8.90. Bob non capisce, non ha pratica del sistema metrico-decimale.

Lo soccorre ancora Ralph: “Hai saltato 29 piedi, due pollici e un quarto”. Bob vacilla, sta per svenire. “Hai distrutto la gara”, gli dice Davies che a Tokyo ha vinto con 83 centimetri di meno. Record mondiale migliorato in un colpo solo di 55 centimetri. Il salto nel XXI secolo è il titolo più scontato. Bob accenna un secondo salto – 8,04 – prima di “passare” per i quattro turni residui.

Davanti ai capolavori, i critici possono scatenarsi: quanto ha inciso l’altitudine? Quanto peso hanno avuto il tartan appena nato, i due metri di vento a favore, l’aria che era diventata elettrica dopo il temporale? Renato Morino scrisse un magnifico pezzo in cui veniva narrata l’opera di dissezione che venne provata su quel miracolo, “sino a quando capimmo sino in fondo quel che avevamo visto”. La premiazione viene due giorni dopo quella dei 200. “Per solidarietà portavo un paio di calzini neri”. Niente di clamoroso.

Al ritorno a El Paso, nessuna parata della vittoria, nessun benvenuto. Il ragazzo solo diventa un uomo solo. Prova con il basket ma va male, trova un posto nelle pubbliche relazioni di una compagnia di assicurazioni. Nel 1972 ha 26 anni e quando qualcuno gli domanda: “Vai in Germania a difendere il tuo titolo?”, lui risponde: “E perché?”. Tre matrimoni, la laurea in sociologia, la scoperta della grafica, l’aiuto offerto ai giovani con la sua fondazione, un libro (“The man who could fly”, L’uomo che poteva volare), la musica: nella vita non c’è solo una pedana e una buca piena di sabbia.

 

 

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