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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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Gianfranco Colasante
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I sentieri di Cimbricus / La fortezza dove nessuno e' benvenuto

Martedì 7 Febbraio 2023

 

twickenham 

“Nel suo secolo abbondante di storia (e di progressivi allargamenti) Twickenham è stata violata da neozelandesi e sudafricani, da gallesi, irlandesi, francesi e scozzesi. Per due volte ci hanno vinto anche gli argentini. E l’Italia?”

Giorgio Cimbrico 

Il neofita, l’aggregato dell’ultima ora, il non affiliato dirà: Londra. Chi fa parte della confraternita dice: Twickenham, la Fortezza dall’esterno disadorno, la Cattedrale dalle navate impressionanti, l’ex-campo di cavoli diventato Home of England Rugby, il luogo del destino prossimo degli azzurri che hanno messo alle corde i francesi, meritato tonnellate di complimenti, messo in allarme i vecchi maestri e i loro raffinati analisti che scrivono su quei giornali che qualcuno si ostina ad etichettare come autorevoli: “L’Italia può essere un pericolo”. 

Nel suo secolo abbondante di storia (e di progressivi allargamenti) Twickenham è stata violata da neozelandesi e sudafricani, da gallesi, irlandesi, francesi e scozzesi. Per due volte ci hanno vinto anche gli argentini: l’ultima dei Pumas è di tre mesi fa, la premessa al licenziamento dell’australiano Eddie Jones e alla chiamata di Steve Borthwick. L’esordio da CT dell’ex-capitano dell’Inghilterra ha coinciso con un successo degli scozzesi che continuano a conservare la Calcutta Cup, sormontata da un elefantino e con i manici che riproducono altrettanti cobra. 

Gli 82.000 di Twickenham hanno assistito in un diffuso brusio, senza mai lanciare canti guerreschi. Più che delusi, offesi. Dov’è finita la prepotenza fisica degli inglesi, vent’anni fa campioni del mondo, gli unici dell’emisfero nord ad avercela fatta? Lo stesso sbigottimento di dodici anni fa, quando l’Italia segnò l’unica meta di quel pomeriggio teso e i bianchi la spuntarono 18-11 grazie al piede di Toby Flood 

Vincere a Twickenham è come vincere a Wembley o a Wimbledon. Chi ci riesce passa alla storia, come Fabio Capello, che a novembre festeggerà i 50 anni del suo gol, di piatto dopo rasoiata di Giorgio Chinaglia. Matteo Berrettini non ce l’ha fatta ma arrivare sino in fondo, sull’erba ingiallita da due settimane di tenzoni, gli ha garantito un posto di riguardo all’All England. 

A Wimbledon, Church Road; a Twickenham, Rugby Road, così non si sbaglia. Twickenham è diventato uno di quei luoghi della coscienza che popolano la vita: lontano come Timbuctù, ricco come un Perù, affollato come il Benares-Calcutta, ordinato come l’Imperial Regio del tempo di Cecco Beppe, silenzioso come il mare (lo diceva anche un grande scrittore come Vercors), tranquillo come la Svizzera. Ovale come Twickenham, la Shangri-la, la serra della Rosa, il luogo dove se non tutto, molto è avvenuto. 

Alla fine uno si fa l’idea che Twickenham non esista, sia una dimensione, un modo di dire, un improvviso dell’anima avrebbe detto Ionesco, una quercia cava piena di sortilegi, uno specchio da penetrare per entrare in un mondo possibile con penati in caschetti di cuoio come William Wakefield, principi volanti come Aleksandr Obolensky, cori maestosi quanto ne venivano offerti alla Albert Hall in imperante età vittoriana, maglie di cotone ritorto con il colletto, niente sponsor, qualche tabelloncino pubblicitario, un paio di telecamere. E invece Twickenham c’è davvero, un comune del Middlesex a 15 miglia dal centro di Londra, con la main street, i pub, la vita minuta e corrente, vecchi studi cinematografici, un padiglione di stile indiano. 

“Twickenham” è il cartello blu che si vede scendendo dal treno (parte da Waterloo, direzione Reading) e finendo dentro la siepe umana in lento movimento verso l’uscita dalla stazioncina. E’ la prima dimostrazione che Twickenham esiste. Le altre prove vengono dall’odore di cipolla fritta e di senape che si alza dai van parcheggiati nei pressi della stazione e che promettono jumbo sausage e hamburger di classe mondiale. Di lì inizia lo scalpiccio della folla, da lì può esser udito il clop clop della polizia a cavallo (molto coreografica) e lungo quel miglio scarso possono essere acquistati i panini e i dolci che gli abitanti di Rugby Road mettono in vendita nei giardini delle loro casette. Mai un urlo, mai un berciare mentre ci si avvicina alla Fortezza, al luogo, suggerì Lawrence Dallaglio, dove nessuno è benvenuto. 

Era un campo di cavoli, comprato per 5572 sterline dalla Rugby Football Union su invito di Billy Williams, arbitro che con questo consiglio, accettato, intese chiudere la lunga “festa mobile” della nazionale inglese. Il 10 ottobre 1909, esordio con Harlequins-Richmond: c’era posto per 17.000, oggi per 82.000. All’interno di una delle curve anche un hotel (Marriott) da 156 stanze e sei suites con finestre sul terreno di gioco: per dirla alla Foster e alla Ivory, camera con vista. La catena, parafrasando la colonna sonora cantata dai tifosi (swing low, sweet chariot) e di recente accusata di contenuti che riportano alla schiavitù, ha coniato lo slogan “swing low, sleep Marriott”

Twickenham è un sacrario e una fabbrica di soldi: a palmi, è stato calcolato che ogni volta che i cancelli vengono aperti, un pomeriggio valga almeno 8 milioni di sterline. Perché tutti comprano (l’ingresso nel negozio equivale a conquistare una trincea), tutti bevono (lo stadio si riempie a cinque minuti dal calcio d’inizio), tutti mangiano, tutti ritrovano vecchi compagni di scuola nei palchi da, minimo, 500 sterline pro capite, tanti visitano il museo dove sono conservati memorabilia imperdibili. 

In Inghilterra la società è multietnica ma a Twickenham il pubblico è bianco al 90% abbondante. Middle e upper class, come i giocatori dei ritratti: gente finita alla Camera dei Lord, caduti in Birmania, attivi in studi legali dalla lucida targa fuori dall’uscio. 

Paolo Rosi ci arrivò quando il rugby italiano era una cosa di pochi, segnò una meta (al Rosslyn Park) e ne parlò per tutta la vita, Mauro Bergamasco ci è arrivato quasi mezzo secolo dopo e per prima cosa “ho rimediato una cornata da Leonard”, data così, perché si ambientasse con l’urlo della battaglia. I francesi dicono: scendi in campo e sei dieci punti sotto perché l’ambiente non è minaccioso, è ostile. Oggi un po’ dimesso. Forse è il momento, chissà.

 

 

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