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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Un matador gentile, sempre disponibile

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Giovedì 29 Dicembre 2022

 

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Gesti sublimi e intuizioni ruggenti. Basterebbero a ricordare Pelé che se ne è andato a 82 anni? Era malato, dall’ospedale lo avevano mandato a casa perchè gli ultimi respiri li raccogliesse la figlia. E’ stato davvero il più grande? Forse si.

Giorgio Cimbrico 

Addio al Re, o Rei, che continuerà a sorridere, a dare un’occhiata rapida prima di smarcarsi, a colpire con la calligrafia della naturalezza, a essere il simbolo di un’epoca, di un mondo perduto, a provocare attacchi di nostalgia, da oggi anche più profondi e strazianti, perché senza più Pelé è giorno di sole nero. “Fermate gli orologi”, disse un grande poeta. Ma è tutto inutile.        

Dicono che, ciak, andò bene la prima: cross di quel buonanima di Bobby Moore per il cuore dell’area, grappolo di minacciosi tedeschi in maglia nera e svastica e un ippogrifo scuro e lucido di sudore, in maglia bianca, che vola più in alto di tutti: rovesciata in cielo per chiudere la palla verso il basso, nell’angolo più lontano. Tutto preceduto dall’urlo di Moore: “Vai Fernandez”. Fernandez era Pelé. Germania 4, Alleati 4. “Fuga per la Vittoria” non è un capolavoro e non è il più bel film di John Huston, ma offre quel gesto paradisiaco e, un’ora prima, anche i lineamenti dell’estetica calcistica di Pelé. Quando Michael Caine, manager e statico centromediano, spiega alla lavagna la tattica, Pelé si alza, prende il gessetto, invita gli altri a dargli la palla più o meno all’altezza della propria area, disegna un ghirigoro che è un dribbling infinito: “Così, così e così: gol. Non è difficile”. 

Quello segnato in una Colombes presidiata dalle truppe tedesche sarebbe stato il 1233° gol in una finzione molto solida. Tutti gli altri sono stati reali, in una successione di gesti che non fanno solo parte della storia del calcio: sono immagini, immagini assolute, come il volo di Bob Beamon, la rivoluzione di Dick Fosbury, la meta di Gareth Edwards, la cavalcata di Fausto Coppi, il sorriso affumicato di Tazio Nuvolari, le camminate nell’aria di Michael Jordan.

Era un onore prendere gol da lui: quando segnò il 1000° (O Milesimo) il portiere del Vasco da Gama si tolse la maglia per mostrare quella che aveva sotto, con il numero magico, stampato in oro. Era toccato a lui e ne sarebbe stato orgoglioso per sempre. Misero una targa, ma altre sono state apposte in altri stadi: qui ha segnato il più bello, con una botta da 35 metri all’incrocio; qui ha saltato sei uomini e ha scavalcato il portiere. Una chanson de geste, la chiamano i francesi. L’epica della bellezza dei suoi movimenti: accenni di affondo, cambi di direzione (quelle che adesso in tv chiamano sterzate) prima di decidere come assestare la stoccata. Un matador gentile, sempre disponibile: Pelé parlava anche con il più giovane tra gli aspiranti e inesperti cronisti.  

Gesti sublimi e intuizioni ruggenti. Pelé, ragazzino a Stoccolma, aggancia con il petto e tira al volo alle spalle del portiere svedese e poi ride ingenuo e alla fine, nel gran mucchio festante, Gilmar lo prende sotto la sua grande ala. Un principino che sta diventando re, O Rei, un adolescente che consegna al Brasile la Coppa maledetta, quella sfuggita nel ’38, quella della Gran Disgrazia del ’50, del Maracanazo. Ma ora tutto è dimenticato, è una tristessa che per favore vai via perché c’è lui, inviato dalla Provvidenza, un prodigio della magia bianca, non di quella nera. E’ l’Apparizione che giocava nella squadra di Bellini tutto geometria, di Didì tutto cervello, di Garrincha tutto cuore e follia, di Vavà che diceva “mettetemela a mezz’aria in area e faccio sempre gol”. E poi c’era questo ragazzo che veniva da un posto con un nome speciale, Tres Coracoes, tre cuori. Qualcosa, nella sua storia, vorrà pur dire. 

Ci sono stati tanti Pelé. Ce ne fu persino uno che venne a Genova – è passato quasi mezzo secolo – e si trasformò nel pifferaio di Hammelin: attirò tutti allo stadio anche se era luglio pieno e al Santos non si potè che opporre una selezione battezzata Genova, con momentaneo solluchero di coloro che impetravano la fusione rossoblucerchiata. Il portiere era Lonardi e Pelé lo battè su rigore (pallone lemme lemme nell’angolo opposto a quello che era stato scelto, senza cucchiaio che non usava) e poi alzandosi su un grappolo per una micidiale deviazione di testa. Girava voce che saltasse due metri in alto e magari era anche vero: Santos-Genova 7-0.

Il Santos tutto bianco, la sua squadra, quella con cui vinse dieci campionati, che non tradì mai, anche perché quando nel ’62 si fecero sotto i grandi club spagnoli e italiani, il Brasile prese una decisione politica: lui è il nostro patrimonio e qui deve rimanere. I Cosmos New York del suo finale di partita appartengono al meriggio e al desiderio comprensibile di avere un conto in banca da sovrano: quattro milioni di dollari nel ’75 erano una bella somma per giochicchiare con Moore, Chinaglia e gli altri pionieri che non riuscirono a stabilire forti caposaldi negli Stati Uniti. 

Gesti, ancora gesti, espressioni di dolore, di gioia ritrovata, ancora scalata. Quando il bulgaro Zechev gli massacra una caviglia, Pelé ha lo stesso volto sofferente di quando, nel film, lo portano via a braccia, con il costato frantumato dalle gomitate naziste. Non ha dato molto aiuto al Brasile nel ’62 (che in ogni caso fa il bis pescando il jolly Amarildo), non riesce a dargliene quattro anni dopo in Inghilterra quando i verdeoro ripiombano sulla terra, andando a farsi fare a fette contro l’ultima grande Ungheria vista sul palcoscenico.

Ma Pelé non finisce lì, decide di avere ancora a disposizione il Mondiale sull’alta sierra messicana. In finale, il corpo sospeso in aria pare un arco che sta per scoccare una freccia: Tarcisio Burgnich, che sta accorrendo su di lui in un disperato tentativo di cambio di marcatura (il povero Ferruccio Valcareggi non ci aveva capito molto), intuisce da sovrastato che non c’è più niente da fare e Ricky Albertosi vede arrivare un colpo di testa che ha la forza di un collo pieno. E poi, nel finale dell’asfissia azzurra, c’è ancora lui che si aggira nei pressi dell’area, quasi distratto, dà un’occhiata e consegna con un esterno dai giri contati a Carlos Alberto che brucia l’erba con quella che una volta si chiamava cannonata. Terza Coppa Rimet: da quel momento ha cambiato nome.          

Quando gli chiesero se lui era stato il più grande, con la sua voce profonda Pelè rispose che il più grande era stato un argentino, Alfredo Di Stefano. Ma è stato “l’altro argentino”, quello che lo ha preceduto nel viaggio da cui nessuno ha fatto ritorno, a fare da termine di paragone, da avversario mai incontrato sul campo, da diverso. E così non è mai corso buon sangue con Diego Armando Maradona, incontrollabile, diabolico, nemico di ogni gerarchia, lontano da ogni costrizione, da ogni circolo di potere, da ogni establishment. Mai stati amici, i due grandi più grandi, lo stanziale e tranquillo Pelé e Diego animato dall’irrequietezza del nomade, che hanno finito per condividere soltanto un numero, il nobile 10.

E ora è facile, scontato sentire ripetere la solita solfa: Pelé è stato il più grande del vecchio calcio lento, bailado; Maradona è stato il più grande in un moderno che profuma di contemporaneità. Pelè se ne va. Lascia un malessere profondo, la cognizione di un dolore senza confini. Sarà tremendamente difficile ricostruire il vecchio regno senza le sue calde parole, senza di lui.

 

 

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