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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / L'appendice nera al sogno di Mandela

Giovedì 17 Novembre 2022

 

kolisi 

Sabato prossimo 19 novembre, il Sudafrica campione del mondo torna a giocare al “Ferraris” di Genova contro l’Italia. Nel 2001 il capitano era Bobby Skinstad, bianco. Ora il capitano ha cambiato colore. 

Giorgio Cimbrico 

Tre anni fa a Yokohama Siya Kolisi alzò la Coppa del Mondo, la terza del Sudafrica, la prima sollevata da un capitano nero. Se era necessario un simbolo, l’appendice finale al sogno di Mandela, eccolo. Quando quel Sudafrica appena uscito dall’apartheid sconfisse gli All Blacks a Johannesburg e ispirò Clint Eastwood per “Invictus”, Kolisi era un bambino, aveva quattro anni. 

Da questo periglioso cammino, che ha riservato amare sorprese (con Giappone e Italia), cocenti umiliazioni con i i neozelandesi e la resurrezione di tre anni fa, quando gli Springboks conquistarono la loro terza coppa, il rugby sudafricano si sta risollevando affidandosi non all’obbedienza cieca agli “ukaze” della politica, ma a scelte razionali. Se Siya Kolisi, flanker, nativo di una township nei pressi di Port Elisabeth, provincia orientale del Capo, otto anni fa per la prima volta in campo con i Boks (a Neispruit, 30-17 alla Scozia, stringendo subito tra le mani il titolo di Uomo del Match), ha avuto i gradi di capitano, è per una ragione molto semplice: li merita.  

La parentesi che porta a Kolisi è lunga il quarto di secolo scandito dalla riconciliazione voluta dal Madiba (riconoscersi negli Springboks, a lungo odiati come simboli del potere bianco, è uno dei postulati), spesso partoriti tra lo stupore dei suoi compagni di lotta e di prigionia, da un’intolleranza che è arduo estirpare, da una trasformazione delle istituzioni che non corre parallela a quella dei progressi sociali, da uno snaturamento degli ideali del Padre della nuova patria, dall’avidità e dalla corruzione che corrono nella nuova classe dirigente. 

E’ il Sudafrica di una bandiera ora molto africana, di un inno in cui convergono quattro idiomi, anche l’afrikaans dei vecchi padroni, di esperimenti suscitati da chi pensa di non aver saldato i conti con il passato: le “quote nere”, usate con rigore burocratico, si trasformano in un virus che indebolisce, che intacca i tessuti, in un momento storico in cui il Sudafrica spedisce sulla scena forti nuotatori, formidabili velocisti e saltatori e sta per riservare l’arrivo di Wayde van Niekerk, sintesi delle linee di sangue che scorrono nel paese e capace di spezzare il dominio americano nel quarto di miglio. 

I neri scandiscono quel che il Madiba aveva chiamato il “lungo cammino verso la libertà”. Anche quella di giocare con un pallone ovale in mano, di spedire al suolo avversari bianchi senza scusarsi o rischiare scudisciate. 

L’iniziatore: qualcuno appiccicò addosso a Errol Tobias l’etichetta di “Zio Tom”: erano anni di cani, di repressione violenta, senza pietà, di carceri speciali, di torture, di fuoco sulla folla e sui giovani che osavano alzare la testa. Erano anche gli anni delle cautissime apertura di Danie Craven detto Doc, il tentativo di non rendere definitivo e totale l’isolamento, di non contare generazioni intere che non avessero la possibilità di confrontarsi con il resto del mondo. I Giochi Olimpici erano preclusi (un tentativo di riammissione da parte di Avery Brundage, nel ’36 buon amico della nomenklatura nazista, era abortito a Messico ’68), il Sudafrica era isolato. Non del tutto, in realtà. L’Italia lo visitò nel ‘73 senza mai trovarsi di fronte gli Springboks e trovando l’unica vittoria di quel tour originario contro i Leopards, in uno stadio dove i pochi bianchi presenti erano chiusi in una tribuna-gabbia guardata da poliziotti armati di mitra. 

Prendevano anche corpo tentativi, più o meno abili, di esportazione: nel ‘71 Tobias giocò in un tour in Gran Bretagna con i Proteas, espressione di una delle quattro organizzazioni ovali, la South African Coloured Rugby Football Federation. Neri, bianchi, meticci: prima della nascita della nazione-arcobaleno, i colori erano accuratamente divisi. Erano gli anni – e molti ne avrebbe srotolati il calendario – in cui, passando da Trafalgar Square, era inevitabile notare un banchetto di attivisti che stazionava di fronte alla South Africa House, un enorme edificio in pietra chiara sormontato da due gazzelle e dalla bandiera di quel tempo: nel campo bianco, una Union Jack e i piccoli vessilli del Libero Stato di Orange e della South African Republic, il Transvaal. 

Il mondo (specie quello ovale) non si comporta sempre in modo coerente con chi, ufficialmente, è al bando: nel ’74 Tobias è il capitano dei Proteas che giocano (e perdono 37-6) coni Lions britannici ma qualche anno dopo quando gli Springboks partono per il Sudamerica si vedono negare il visto dall’Argentina e devono accontentarsi di affrontare Uruguay, Paraguay e Cile. Nell’81, via Lisbona (unico aeroporto europeo con collegamento diretto con il Sudafrica), atterra l’Irlanda e il 30 maggio, primo test a Newlands, diventa una data storica: Tobias gioca negli Springboks a Newlands, e replica a Durban. Due vittorie. Sarà una costante: sei volte in campo, sei successi. La meta nel secondo test con l’Inghilterra, nell’84, arriva non dopo una serie di cornate, ma in fondo a una ragnatela di passaggi. ET risolve con una volata molto secca. Cercando in rete si trova e merita di esser vista. 

“Volevo giocare a rugby per far vedere quel che valevo”. Raccontano che non era stato accolto bene, che qualcuno dei boeri usasse nei suoi confronti parole offensive (la più comune era kafir, cafro, il bufalo che sul dorso ha una lanugine simile ai capelli crespi), ma ET, nato in una fattoria dello Western Cape, non era un uomo arrabbiato, forse era anche un poco riconoscente. E così si ritrovò spesso strattonato dall’una e dall’altra parte: poco gradito dagli olandesi-ugonotti-tedeschi, disprezzato da chi stava combattendo una lunga battaglia senza esclusione di colpi. Un kafir e un servo. 

E poi toccò a Chester Williams, nato a Paarl, dove producono un eccellente bianco, ma di là dalle vigne si stende una township dove si fiutava e si fiuta un vapore che stordisce e ammolla il cervello, il tik. E’ passata una generazione, Mandela non è più sull’isola maledetta, de Klerk, da buon politico, ha capito che in qualche modo se ne può uscire e così alla fine della storia mezzo Nobel per la pace toccherà anche a questo boero che nel ‘94 lascia la poltrona di presidente all’ex-detenuto 46664. Qualche mese prima, nel novembre del ’93, Chester aveva avuto la sua prima maglia, al Ferrocarril di Buenos Aires: larga vittoria degli Springboks sui Pumas con una sua meta. Di mete ne segna un grappolo, quattro, contro Samoa, nei quarti del Mondiale ’95, quello di Mandela, di Pienaar, di Invictus, una pagina sportiva con una portata storica come quella delle Olimpiadi di Messico ’68. 

“All’interno della squadra c’era un bel clima, diverso da quello che mi è toccato respirare in certe partite di Currie Cup”, racconterà. I neri non erano graditi nelle roccaforti tenute dagli afrikaner vestiti in khaki, il colore dei farmer. E dopo aver vissuto per lunghi anni in un enorme recinto, per reazione Chester diventa un giramondo: gioca (brevemente) a Casale sul Sile, allena in Uganda, in Tunisia, in Romania. Se ne va a 49 anni, poco prima che Kolisi alzasse e baciasse la coppa d’oro.

 

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