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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / "Flower of Scotland" e altre meraviglie

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Venerdì 4 Novembre 2022

 

           scotland 


A riandare alle origini non si fa mai peccato, ma si va avanti. Non l’avessero fatto i progenitori, oggi saremmo ancora nelle caverne. E così facendo ti capita di scoprire e riscoprire quel contributo di azione e di pensiero che arriva dalle Highlands.

Giorgio Cimbrico

L’altro giorno –, chiacchierando con GFC, nostro herr Direktor –, il discorso è finito, non ricordo perché, sulla brocca per il chiaretto, la Claret Jug, il trofeo che, insieme a un ricco assegno, va a chi vince l’Open di golf: non chiamatelo British Open perché si incazzano. La brocca è in palio da 150 anni perché sul precedente trofeo, the Bell, aveva messo le mani Tom Morris, detto il Giovane per distinguerlo da Tom Morris il Vecchio in forza delle tre vittorie di seguito, accompagnate, ciascuna, da un premio di venti ghinee. 


I nomi, che odorano di genealogie bibliche, sono memorabili, così come l’abbigliamento – completo in tweed – e una minuscola sacca per pochi bastoni, in legno. I percorsi da domare erano difficili – lo sono anche oggi per chi usa gli ibridi, il carbonio e altre diavolerie – ed è sufficiente pronunciarli per tremare: St Andrews, Carnoustie, Trun. 

E così abbiamo convenuto che, per lo sport e non solo per lo sport, alla Scozia dobbiamo essere riconoscenti. Nel XIX secolo, in successione, da Edinburgo (scusate, ma io lo scrivo così e se è per questo scrivo anche Copenhagen …) e dintorni sono arrivate molte cose interessanti: la carica degli Scot Greys a Waterloo, la nascita del Lagavulin single malt l’anno dopo, la guerra all’infezione dichiarata da Joseph Lister in uno degli ospedali al tempo all’avanguardia mondiale, il primo test internazionale di rugby, uno dei libri che mai tramonteranno (“Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde”, di Robert Louis Stevenson), l’invenzione, ad opera del macellaio Ned Haig, del rugby a 7 che a Rio ha avuto il marchio dei cinque cerchi olimpici.

Da aggiungere, in rapida sintesi, i primi calciatori professionisti, gli sprinter, professionisti pure loro (in Scozia, come è noto, pecunia non olet), che si sfidavano su acciottolati bagnati o gelati scatenando montagne di scommesse (Allan Wells fece in tempo a praticare quell’ambiente), ovviamente Eric Liddell, lo Scozzese Volante e l’inno più struggente e guerriero, Flower of Scotland.    

Edinburgo, con i suoi vicoli frequentati da dissotterratori di cadaveri, con le sue scalinatelle che portano dalla città vecchia a quella georgiana, con la sua storia sanguinosa – il Castello, il palazzo di Holyrood – offre interessanti itinerari. Aspettando di far rotta verso Murrayfield, uno dei templi del rugby foderato in blu, giallo e viola, le alternative per occupare la libera uscita sono generalmente un paio. 

Una meta è la National Gallery of Scotland, bell’edificio stile Partenone con un’eccellente raccolta che comprende, tra l’altro, una bella Madonna di Botticelli (acquistata dopo sottoscrizione popolare), una veduta di Bernardo Bellotto e le Tre Grazie di Antonio Canova (divise, di sette anni in sette anni, con il Victoria and Albert di Londra) e ha un pezzo forte nel “Reverendo Robert Walker che pattina a Duddington Loch”, dipinto attorno al 1790 da Henry Raeburn. 

L’altra meta è Raeburn Place, dove il 27 marzo 1871 nacque il rugby internazionale con il match tra Scozia a Inghilterra e dove i blu misero in scena le partite casalinghe, sino a quando, nel 1920 non venne perfezionato l’acquisto del lotto che al tempo si chiamava Murray’s Field, il campo di Murray.  

Due Raeburn in un colpo solo. Curioso. I fatti dicono –, e le ricerche confermano –, che Henry Raeburn, prolifico ritrattista (un migliaio di opere in mezzo secolo di attività e un titolo di cavaliere concesso da Giorgio IV) era nato a Stockbridge: la via principale della località, ormai diventata un tranquillo quartiere di Edimburgo, è Raeburn Place. Nato nel 1756 (dieci anni dopo l’ultima rivolta giacobita, sfociata nel massacro dei clan a Culloden), Raeburn muore, sempre a Stockbridge, l’8 luglio 1823.

Un paio di mesi dopo, alla riapertura dell’anno scolastico, uno studente del college di Rugby, almeno stando a una storia ammantata di leggenda, afferra la palla con le mani e crea uno sport: deve ancora compiere 17 anni e si chiama Williams Webb Ellis. Raeburn non era come Turner, all’aria aperta preferiva molto spesso la posa in studio, ma quel giovanottino così intraprendente avrebbe meritato la sua attenzione. Appuntamento mancato per un pugno di settimane. 

A far ricerche c’è sempre da guadagnare perché si scoprono cose interessanti. Che Edimburgo fosse all’avanguardia in un sacco di campi (medicina, filosofia, ricerche meccaniche, commercio) è noto. Non è altrettanto noto che la città è stata anche culla del primo club al mondo di pattinaggio su ghiaccio. Olandesi e norvegesi potranno anche prendersela a male, ma la data di nascita non lascia scampo: 1780. Con primi elementi tecnici e regolamentari già fissati nel 1742 da Robert Jones (a occhio, gallese), ufficiale della reale artiglieria. 

Il Reverendo Robert Walker, della Chiesa di Scozia, era membro del club che si ritrovava attorno a Duddington Loch (in inglese, lake). Altri tempi, senza i disastrosi cambiamenti climatici che ci ha fatto piovere addosso chi ha il potere e lo usa in maniera irresponsabile: in Scozia il freddo era intenso e permetteva di pattinare e di praticare una delle grandi passioni nazionali, il curling (involgarendo il concetto, le bocce su ghiaccio, anch’esso entrato nella famiglia olimpica e in forte espansione), nato in pieno XVI Secolo e conteso, come il golf, da scozzesi e olandesi. Gli orange, per affermare la primogenitura, mettono in campo nientemeno che un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio. 

A ficcarsi nei meandri dei fatti può anche capitare di ritrovarsi con un pugno di dubbi. Secondo due studiosi interpellati qualche anno fa dalla BBC, il pattinatore più famoso nella storia della pittura, acquistato nel 1949 dalla National Gallery of Scotland per la ragionevole somma di 525 sterline a un’asta di Christie’s, non sarebbe opera di Henry Raeburn, ma potrebbe essere stato dipinto da Henri Pierre Danloux, un pittore francese, di fede monarchica, che aveva trovato rifugio in Scozia allo scoppio della Rivoluzione. 

Raeburn è anche il luogo del primo scontro tra nazionali. Onestamente non c’è molto da vedere. La pietra posata nel 1971, per il centenario, è piantata nell’erba, vicino a un container che non si sa bene se ospiti gli spogliatoi o i servizi degli Academicals. Il grasso e biondo labrador del custode si aggira spesso nei pressi del piccolo monumento, pronto ad alzare la gamba. Non è possibile acquistare una cartolina ricordo, un souvenir, solo dare un’occhiata alla pietra, fotografarla, spingere lo sguardo alle piccole tribune con le tettoie basse, al prato. Raeburn è il più dimesso dei sacrari: invita a ricostruire con l’immaginazione. Era prevista una ristrutturazione ma la pandemia ha bloccato il progetto. 

Di sicuro c’è che 151 anni fa deve essere stato un bel casino perché la partita arrivava quando il magma delle regole era incandescente e ogni college pensava di avere il Verbo: il drop era buono, la meta era buona solo se veniva trasformata, il calcio di punizione non poteva essere piazzato. La mischia, terreno di polemiche. “Irregolare – gridarono gli inglesi – l‘avete fatta con la mischia in spinta”. “E allora? - replicarono gli scozzesi – la mischia non è fatta per spingere?”. E così finì 1-0 e undici mesi dopo, a Londra, Kennington Oval, finì 2-1 per gli inglesi. 

Le battaglie sono continuate di Calcutta in Calcutta, quando in palio c’è la coppa adorna di cobra e sormontata da un elefantino, che gli ufficiali inglesi e scozzesi fusero con rupie d’argento, avanzo di cassa quando il reggimento lasciava il Raj per tornare in patria. Scozzese anche questo gran pezzo d’argenteria, perlomeno a metà. 

 

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