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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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I sentieri di Cimbricus / L'inesorabile rincorsa delle maratonete

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Lunedì 10 Ottobre 2022

chepngetich 2 

“Nelle prove di resistenza, specie quelle in cui l’impegno si protrae molto a lungo, la donna si avvicina all’uomo sempre più rapidamente e in un futuro possibile potrebbe raggiungerlo. Grazie anche alle superscarpe in carbonio.”

Giorgio Cimbrico 

Ruth Chepngetich, 28 anni, kenyana di West Pokot, Rift Valley (foto WA), ha vinto la maratona di Chicago in 2h14’18”, ed è diventata la seconda di sempre, a 14 secondi dal record che sulle stesse strade Brigid Kosgei aveva centrato tre anni fa. Per la prima metà Ruth ha corso a ritmi furibondi (30’40” ai 10 km, 1h02’10” ai 20 km) con proiezioni intorno alle 2h10’. Poi ha pagato (seconda metà in 1h08’34”) ed è umano sia così, in ogni caso aggiudicandosi i 75.000 dollari del primo posto (ingaggio ignoto).  

In un gioco virtuale, il Bikila di Roma ’60 è arrivato secondo a 58 secondi, lo Zatopek di Helsinki ’52 a 7 minuti e 44 secondi, il Mimoun di Melbourne a 11 minuti e 42 secondi.

Accostamenti suggestivi, a parte un aspetto in cui la fisiologia ha una parte vitale: nelle prove di resistenza, specie quelle in cui l’impegno si protrae molto a lungo, la donna si avvicina all’uomo sempre più rapidamente e in un futuro possibile potrebbe raggiungerlo. Basta pensare alla nata e subito abortita 50 km di marcia: sono state sufficienti poche stagioni perché il record precipitasse sotto le 4 ore, la prestazione di Bernd Kannemberg al tempo dell’Olimpiade bavarese del ’72. 

A dar retta alla storia, striata di leggenda, gli uomini corrono la maratona da 2500 anni. Le donne sono apparse sulla scena poco più cinquant’anni fa, grazie a un gruppo di americane, tedesche e francesi che possono meritare l’etichetta di suffragette, le Emelyn Pankhurst dei 42 chilometri, delle 26 miglia. 

Prima a violare le tre ore, Elisabeth Bonner, 2h55’22” a New York, il 19 settembre 1971: in poco più di mezzo secolo, 41 minuti in meno: per un miglioramento del genere gli uomini hanno avuto bisogno di 109 anni. Ancora a New York, destinata a diventare il suo giardino privato, otto anni dopo Grete Waitz superò il promontorio delle due ore e mezza, 2h27’32”, con un progresso violento, cinque minuti, su quanto aveva realizzato dodici mesi prima. 

Il via libera per l’esordio ai Giochi venne per l’edizione del 1984 a Los Angeles, con la vittoria di Joan Benoit. Una data storica, così come il 1972. Quando alle donne fu finalmente permesso di gareggiare sui 1500: giorni memorabili, quelli dei tre record mondiali, turno dopo turno, di Lyudmila Bragina e del bronzo, quasi argento, di Paola Pigni. Per tutte e tre le occupanti del podio (seconda finì Gunhild Hoffmeister) i 4 minuti si rivelarono molto vicini.  

Curiosamente non è un’europea né un’africana la prima sotto le 2 ore e 20’: il 2h19’46” della giapponese Naoko Takahashi venne a Berlino che vide aumentare la sua fama di scorrevolezza, già salita in superficie con il sorprendente record del brasiliano Ronaldo da Costa: nel ‘98, 2h06’05”, 45 secondi in meno del decennale limite dell’etiope Belaineh Densimo. 

Chicago, terreno delle imprese di Kosgei e di Chepngetich, vide nel biennio 2001-2002 i record della kenyana Catherine Ndereba, 2h18’47”, e della britannica Paula Radfliffe, 2h17’18”, l’annuncio dell’exploit di sei mesi dopo a Londra, 2h15’25”. Fu in quel momento che risultò chiara la percezione di un sempre più accentuato e rapido avvicinamento delle donne a una dimensione assoluta, sempre più evidente in queste ultime stagioni con un numero sempre maggiore di atlete in grado di scendere sotto le 2h20’. Oggi per trovare posto tra le prime venti di sempre è necessario aver corso in 2h18’12”. A parte quella di Radcliffe, tutte queste prestazioni sono state ottenute tra il 2017 e il 2022 e nove risalgono a quest’anno. 

Risulta evidente il ruolo che in questo progresso di vertice e di immediata seconda schiera hanno assunto quelle che hanno ormai ricevuto l’etichetta di “superscarpe” con soletta in carbonio, capaci di accompagnare e a rendere più “confortevole”, meno dispendiosa, la spinta a terra. Gli stessi esperti per cui queste calzature assicurano un vantaggio di venti, trenta secondi in un 10.000 su pista, sostengono che il vantaggio per una maratona può essere valutato in tre minuti. E’ un’ipotesi con buoni addentellati nella realtà, nelle cifre, nei risultati delle stagioni in cui le scarpe sono diventate di uso comune: a palmi, chi correva in 2h07’ ora corre in 2h04’ e lo stesso progresso va trasportato in campo femminile.

E’ sminuire quel che sta avvenendo? Bikila, all’inizio, correva scalzo, poi venne “calzato” da Puma (che ha sempre scelto bene i suoi testimonial: Pelè e Bolt per citarne un paio) e i suoi successori ebbero in sorte scarpe sempre più perfezionate, sino all’avvento delle tecnologiche che hanno permesso a Eliud Kipchoge di varcare i cancelli delle due ore e porteranno, tra non molto, una donna a 2h10’. Tutti e tutte hanno corso e corrono con la testa, un cuore, due polmoni, due gambe. Motore e strumenti di antica nascita, dall’alba dell’uomo, e lungo sviluppo.

 

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