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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Pietro, i suoi tormenti, le sue estasi

Martedì 28 Giugno 2022


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Oggi avrebbe tagliato il traguardo dei 70. Per sua definizione è stato il bianco “nero dentro”, l’infaticabile, il feroce con se stesso, l’allievo che aveva trovato – in Vittori – il mentore perfetto, da rispettare anche nelle forme.


Giorgio Cimbrico 

Barletta: in ordine cronologico, il Colosso in bronzo (forse Teodosio II), la Disfida del 1503, il luogo natale, nel 1914, di un grande direttore, Carlo Maria Giulini, lo stesso di Pietro Mennea che arriverebbe ai 70 anni alla vigilia del giorno dei santi Pietro e Paolo e il 4 settembre potrebbe festeggiare il mezzo secolo della sua prima medaglia olimpica. Se n’è andato il primo giorno di primavera del 2013. Che la fine fosse prossima lo sapevano in pochi. 

Pietro, i suoi tormenti, le sue estasi, i suoi inferni, i suoi paradisi all’improvviso, gli occhi ciechi e gli occhi spiritati, la mascella ad angolo retto, la guancia scarna, l’abbandonarsi e lo scuotersi, sono tutti dentro quei 20 secondi alla stadio Lenin, il 28 luglio 1980: una curva disastrosa, all’uscita un distacco da Allan Wells che è facile sbrigare come incolmabile, una reazione che sembra quelli degli eroi dei cartoni, capaci dell’impossibile quando vengono attraversati da una corrente, da un incantesimo.

Niente di bello, di calligrafico (Berruti vent’anni prima era stato un’altra cosa), ma qualcosa di drammatico, quasi di ferino, di disperato. Lo scozzese è ancora davanti all’ingresso negli “scacchi” degli ultimi cinque metri, non lo è più dopo 199 metri. E a questo punto c’è solo la colonna sonora di Paolo Rosi: “Ha vinto, ha vinto, ha vinto”. E Pietro che non aveva più un volto – un ghigno, un rictus – diventa quasi bello, trasognato. 

E qualcuno osservò che era una vittoria mutilata perché a Mosca gli americani non c’erano e allora, pochi giorni dopo, li sconfisse al Golden Gala che da dieci edizioni porta il suo nome.

E quei nervi che erano tesi come cime in una tempesta lo portarono in un mare della serenità: corse ovunque, vinse sempre, con distacchi abissali. E Carlo Vittori, allenatore e demiurgo, propose di tornare a Città del Messico perché un Pietro così avrebbe battuto il Pietro del 12 settembre 1979: 19”72, record del mondo ai 2248 metri di altitudine, altura come dicono da quelle parti. “Poteva correre in 19”60, 19”65”, confessava Vittori che aveva altri progetti. Farlo allungare, portarlo sugli 800. Nulla di tutto questo o si concretizzò. 

Nell’alternarsi dei desideri e del proprio scontento, Pietro decise di ritirarsi e tutti, anche lui, sapevano che non sarebbe finita così. E così tornò e nell’83, a 31 anni, ai primo Mondiali, a Helsinki, finì terzo nei 200 di Carl Lewis e guidò la 4x100 azzurra al secondo posto. In una foto Stefano Tilli, Pierfrancesco Pavoni e Carlo Simionato lo guardano con la stima, con la riconoscenza che si deve al capitano. 

Mennea è stato la Freccia del Sud, per sua definizione il bianco “nero dentro”, l’infaticabile, il feroce con se stesso, l’allievo che aveva trovato – in Vittori – il mentore perfetto, da rispettare anche nelle forme, l’ambizioso che poteva cadere in una depressione (capitò dopo il quarto posto di Montreal) che durava poco perché lui aveva dentro la missione del riscatto. Grazie alla sua provenienza famigliare e geografica, qualche sociologo ebbe buon materiale per tracciare il profilo dell’uomo e chissà se il risultato è all’altezza. 

Ha collezionato tempi, medaglie, lauree, ha frequentato il Parlamento europeo, ha aperto uno studio legale, ha scritto libri, ha accumulato un così cospicuo numero di volumi che, raccontava la moglie Manuela, furono obbligati a affittare un appartamento per accatastarli. Leggeva, annotava, ricordava tutto. Quando la malattia aveva iniziato la sua opera, Pietro stava progettando un racconto sulla strage di Monaco di Baviera: lui era lì, testimone attendibile dello squarcio inferto ai Giochi.  

L’atletica ha strumenti esatti e cronologie che paiono passi biblici: Mennea è stato primatista mondiale dei 200 per quasi 17 anni e quando siamo vicini al 43° anniversario di quel 12 settembre è ancora primatista europeo e ancora il sedicesimo più veloce della storia, un testamento del XX secolo. E’ stato 39 anni primatista italiano dei 100: quel 10”01 messicano è stato battuto dal 9”99 madrileno di Filippo Tortu che era solo il ragazzo più veloce di Milano quando Pietro se n’è andato. Un diciottenne Marcell Jacobs pensava che il suo futuro sarebbe stato nel salto in lungo. Sarebbe molto soddisfatto di loro e avrebbe concesso segni di eccitazione per quella rimonta al largo di Pippo nella 4x100: un azzurro in caccia di un britannico, per bruciarlo all’ultimo metro, all’ultimo centesimo. Come a Mosca.

Concesse un record del mondo anche a Genova, in una fredda domenica di febbraio del 1983, in un Palasport che risuonò di uno sparo, di un tambureggiare di piedi. Anche quel giorno il suo viso si illuminò. Era tornato. 

 

 

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