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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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I sentieri di Cimbricus / "Preferi' essere rosso piuttosto che ricco"

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Mercoledì 6 Aprile 2022

 

    stevenson 


Ora che anche Cuba si inchina al professionismo, è l’occasione per ricordare chi – come Teofilo Stevenson – non volle mai fare il salto nella nuova dimensione. Rendendo eterna e insoluta la domanda: sarebbe stato più grande di Alì?

Giorgio Cimbrico

Non più per gloria ma per denaro: sul ring da professionisti. A Cuba non capitava da sessant’anni. Lontani tempi in cui Fidel Castro, in uno dei suoi fluviali discorsi in Plaza de la Revolucion – sulla parete cieca di un palazzo, è dipinto uno sterminato ritratto di un vecchio giocatore di rugby: Ernesto Che Guevara – diceva con trasporto e orgoglio: “Conquistarono la luna, ma non riuscirono a conquistare il titolo mondiale di baseball amateur”. Perché a Cuba, nella linda Cuba, dal 1962 il professionismo era stato bandito.

E più di un giocatore riuscì a varcare i 130 chilometri che dividono la lunga isola nella corrente dalle coste della Florida, calamitato dal denaro che correva nella Major League. Se ne andò qualche pugile – José “Mantequilla” Napoles, che diventò messicano, e Benny “Kid” Paret, che trovò la morte dopo un selvaggio incontro con Emile Griffith. Lui, Teofilo Stevenson, a partire non pensò mai.

Teofilo se n’è andato dieci anni fa. Più che le sue vittorie il ricordo che lo accompagna è annodato stretto al suo gran rifiuto: “L’amore di otto milioni di cubani vale più di 5 milioni di dollari. Io a loro devo tutto”. E così Sport Illustrated, la Bibbia dello Sport, titolò: “Ha preferito esser rosso piuttosto che ricco”. Con rispetto, senza una ferocia venata di vecchio maccartismo.

Alla metà degli anni Settanta, dopo il suo secondo oro olimpico, l’obiettivo dei promoter americani era stampare il cartellone più coinvolgente della storia della boxe, radunare una folla sterminata, alzare montagne di diritti tv: chi avrebbe potuto resistere ad Alì conto Teofilo, il campione delle libertà civili, dell’Islam nero, il ribelle, l’anticonformista, contro il campione della revolucion che teneva duro contro l’embargo a meno di cento miglia dalle coste della Florida? Teofilo rispose no, diventò il campione del popolo e della coerenza, uno dei simboli di Cuba, al fianco di Alberto Juantorena detto el Caballo.

Con Alì finirono per incontrarsi, molti anni dopo, negli anni Novanta. Teofilo aveva passato la quarantina, Alì era già posseduto dal demone del Parkinson. Si strinsero la mano, sorrisero per i fotografi. Sul ring accennarono qualche fiacco passo di danza. Rinacque il rimpianto di non averli visti uno contro l’altro: il jab di Alì contro il diretto fulminante di Teofilo, il loro gioco di gambe, l’eleganza, i grandi corpi muscolati dalla natura, non dalle pillole, senza grasso, senza ipertrofie. Cassius Marcellus, il nipote di schiavi del Kentucky, e il figlio di tagliatore di canna che da St Vincent, non lontano da Barbados, era finito a Cuba, portandosi dietro quel nome scozzese, Stevenson.

Teofilo, detto el Pirolo, veniva da un paesetto della parte orientale dell’isola. Primi guantoni calzati prima dei 14 anni, primo titolo a 16 anni, ai campionati del Centroamerica e del Caribe. Appare ai Giochi di Monaco di Baviera per la sua prima cavalcata trionfale. Ricorderà per sempre quei giorni: ”Le mie care memorie cominciano in Germania”. “Mai picchiato così duro in 212 match” dice il tedesco Hussing dopo la semifinale.

Campione del mondo dei dilettanti nel ’74, ancora campione olimpico a Montreal due anni dopo: Simion scappa per due round e appena Teofilo lo accarezza con il destro, il romeno invita a gettare la spugna. E’ il momento dell’assalto degli organizzatori americani. “Fai il salto, Teofilo: qui ci sono 5 milioni di dollari che ti aspettano”. A Cuba il professionismo non c’è, è vietato. L’isola non è più il bordello dei mafiosi, il cento di smistamento degli stupefacenti: è un paese socialista, lo sport è di tutti, è per tutti, velocisti, lunghisti, triplisti, ostacolisti, fiorettisti, ginnasti. A loro riesce tutto facile. Si può diventare un modello senza avere le tasche piene di denaro.

Teofilo resiste e a Mosca ’80 (l’ungherese Levai diventa il primo a finire in piedi in fondo a tre round in fuga) ascolta per la terza volta quella marcia marziale e allegra, diventa il secondo della storia, dopo l’ungherese Laszlo Papp, a metter mani e guanti sul terzo oro consecutivo. Due anni dopo, ai Mondiali, il destino gli spedisce sulla strada un romagnolo simpatico e corpulento: 5-0, dicono i cartellini dei giudici, per Francesco Damiani che interrompe un’imbattibilità che andava avanti da undici anni, i lunghi anni della vita di Teofilo che deve rinunciare, per il boicottaggio di Cuba, ai Giochi di Los Angeles ‘84.

E così, dopo la vecchia domanda (avrebbe battuto Alì?) ne nasce una nuova: avrebbe fatto il poker? Dopo il ritiro (301 vittorie in 321 match da nove minuti), dà una mano a chi finisce per uguagliare il suo record, Felix Savon, campione dei massimi a Barcellona, a Atlanta, a Sydney. Ma nessuno dice mai che è nato il nuovo Stevenson. Di Stevensn c’era lui, come di Alì ce n’è stato uno.

Quando lo ricoverano per un’arteria che si sta chiudendo, gli arrivano lettere da tutte le parti, anche dai fuoriusciti di Miami. “Dovevo essere proprio grave: io non me ne ero reso conto”, sorrise lui quando i medici gli diedero via libera. Sei mesi dopo, meccanismo cardiaco che si inceppa e che nessuno riesce ad aggiustare.

Teofilo appartiene al tempo eterno e profondo del grande sport, e così scuote e sorprende notare quella sua data di nascita: era nato il 29 marzo del ’52. Sembrava eterno, aveva 60 anni.

 

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