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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
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I sentieri di Cimbricus / In ricordo di Obo the Prince

Venerdì 7 Gennaio 2022

 

obo 

“Bel viso, capelli elegantemente ravviati, piede veloce: 10”6 sulle 100 yards. Un personaggio preso da un romanzo di Evelyn Waugh: limousine, colazione al Ritz, secchiello perché lo champagne non perda freschezza, plateau di ostriche.”

Giorgio Cimbrico

Il principe Aleksandr Sergeevic Obolensky era già un monumento. Da qualche anno è un monumento in pietra (costo, 50.000 sterline: tra chi ha contribuito, anche Roman Abramovich), scoperto in Cromwell Square, Ipswich, Suffolk, in ricordo di Obo the Prince che se ne andò a 24 anni ai comandi del suo Hurricane, in atterraggio alla base RAF di Martlesham Heath dove stava completando l’addestramento.

 

Dopo, avrebbe volato e segnato mete contro i tedeschi, tutti ne erano convinti, anche lui. Il giorno dopo, chi lo attendeva a Gloucester per il ritorno dell’incontro di beneficenza tra Inghilterra e Galles, ebbe in sorte un minuto di silenzio e lo sgomento. Era la vigilia del secondo Natale di guerra.

Quando si parla di eroi giovani e belli è commovente riascoltare quel che riuscì a dire, nel suo attonito dolore, Karen Blixen quando Denis Fynch Hatton tornò alla terra: “Il giorno che hai vinto la gara per la tua città ti abbiamo applaudito nella piazza del mercato: uomini e ragazzi si fermavano ad applaudirti quando t’abbiamo portato a casa sulle nostre spalle. Ragazzo scaltro, sei fuggito per tempo dagli onori della vita: corridori che la loro fama ha superato e il nome muore prima dell’uomo. Intorno al capo subito cinto dall’alloro si raccoglieranno a guardare i morti senza vigore e tra le tue ciocche di capelli troveranno una ghirlanda piccola, come di fanciulla”.


Di Obolensky esistono foto terribilmente snob: in una ha la giacca di Oxford, con aurea corona sul taschino, portata disinvoltamente sui calzoncini da gioco e la maglia bianca; in un’altra, uno di quei maglioni con profondissima V, comuni al tennis, al cricket. Bel viso, capelli elegantemente ravviati, piede veloce: 10”6 sulle 100 yards. Un personaggio preso da un romanzo di Evelyn Waugh: limousine, colazione al Ritz, secchiello perché lo champagne non perda la sua metallica freschezza, plateau di ostriche: dicono ne mangiasse una dozzina prima di scendere in campo.

Del Principe esiste anche un breve filmato: corre come un Mercurio per settanta metri, schiaccia la palla e una muta nera non riesce ad afferrare e a sbranare quella volpe bianca. Dopo ne farà un’altra, ancora più spettacolare. E’ il 4 gennaio 1936: Inghilterra-Nuova Zelanda 13-0. I 60.000 di Twickenham esultano.

Sono passati 86 anni da quel prodigio ed è la prima delle sette vittorie della Rosa sulla Felce, scandita dalle aristocratiche segnature del ventenne che iniziò il suo giorno dei giorni con una battuta non meno fulminante delle sue volate. “Quale diritto avete di giocare per l’Inghilterra?”, provò a non metterlo a suo agio, con quei suoi occhi gelidi, il Principe di Galles, più tardi brevemente Edoardo VIII, protagonista di una delle più famose abdicazioni della storia per amore di quel manico di scopa di Wally Simpson. “Studio a Oxford, sir”, sir, non Altezza, replicò il Principe di Petrograd che di lì a poco, alla devastante corsa lineare avrebbe fatto seguire un’interpretazione poco ortodossa, sconvolgendo gli All Blacks: conversione dalla destra alla sinistra, disegnando un’ampia curva sul prato di Twickenham. Sarebbe andato forte anche sulle 220 yards ma non esistono riferimenti al riguardo, se non questo colpo di genio.

La cittadinanza gli venne concessa di lì a poco, ultima tappa di un itinerario che lo aveva visto bambino frequentare la scuola preparatoria di Etwall e il Trent College prima di approdare, 18.enne, al Brasenose di Oxford dove si dedicò senza successi clamorosi a studi di economia, politica e filosofia: molto meglio come velocista e come ala. In Inghilterra era arrivato in fasce, erede di una nobile famiglia russa, vecchia mille anni. Il padre Sergei aveva comandato la guardia imperiale a cavallo: normale avessero fatto fagotto poco prima dell’assalto al Palazzo d’Inverno. Gli Obolensky, che si stabilirono nel quartiere londinese di Muswell Hill, possedevano buone sostanze: principi meno forniti, duchi e arciduchi che non riuscirono a portare con sé che un pugno di gioielli, finirono a guidare taxi, a servire da maggiordomi, da capocamerieri, da dame di compagnia formando folkloristici comitati anti-sovietici.

Obolensky obbligò gli avversari a precorrere i tempi, a far vedere la luce alla videoanalisi: Vivian Jenkins, estremo del Galles, passò ore in un cinema di Londra dopo essersi fatto montare il filmato della partita contro gli All Blacks insieme a brani di animazione, per capire e carpire i suoi movimenti. Gli andò bene: quando se lo trovò contro, il Principe ricevette la miseria di un pallone e Jenkins lo bloccò senza problemi.

Fu una cometa, Aleksandr: venne accantonato mentre cresceva la stella di Hal Sever, la miglior ala inglese degli anni Trenta, si dice. Solo che il Principe è una leggenda e Sever lo ricordano solo indefessi storici della palla ovale e, forse, i pronipoti.

 

 

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