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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / Il mondo cambia, ma c'e' chi tiene duro

Martedì 14 Settembre 2021


ricciardo

 

Ormai non è più questione di bandiere (anzi, cresce il numero di coloro che vorrebbero abolirle), se è vero che i tradizionali confini stanno mutando, come le convenzioni e – perché no – le vecchie care certezze.

Giorgio Cimbrico

Nel ’77, venticinquesimo anno del suo accesso al trono, Elisabetta, spettatrice nel box reale, espresse le sue dirette congratulazioni a Virginia Wade: la figlia dell’arcidiacono della Chiesa d’Inghilterra a Durban aveva vinto a Wimbledon, per di più nel centenario della fondazione dei Championships. Quarantacinque anni dopo, la Sovrana ha inviato, in rete, il suo compiacimento per il ritorno al successo di una tennista britannica in un torneo dello Slam, gli US Open.

E’ bene dire a questo che Emma Raducanu, 18 anni e dieci mesi, è molto diversa da Ginny: il padre è romeno, la madre cinese, lei, molto graziosa, è nata a Toronto e vive nel sobborgo londinese di Bromley. Il suo retroterra è minuscolo: fuori al primo turno al torneo di Nottingham, ottavi a Wimbledon (rimarchevole), un paio di tornei minori negli Usa, una lunga permanenza sui campi di Flushing Meadows: ha cominciato dalle qualificazioni ed è arrivata sino in fondo battendo Leylah Fernandez, canadese di Montreal, padre ecuadoriano, madre filippina, di due mesi più anziana. Anche a lei è giunto un messaggio da Palazzo: tutto sommato, Elisabetta è la regina anche di Leylah.

In questo teatro di cambiamenti il Canada ha una larga parte, una terra promessa: anche Felix Auger Aliassime (semifinalista agli US Open) è di Montreal, madre franco-canadese, padre del Togo. Canadesi sono Denis Shapovalov, nato a Tel Aviv da madre ebrea-russa e padre russo-cristiano ortodosso, Milos Raonic, montenegrino di Podgorica, e Andre de Grasse, campione olimpico dei 200 e piazzato di superlusso ai Giochi e ai Mondiali: di Barbados sul versate paterno e di Trinidad su quello materno.

Esempi colti qua e là: l’europeo più veloce di sempre, Marcell Jacobs, è italiano ed è nato a El Paso, da un militare americano e da una ragazza di Desenzano; Naomi Osaka dovrebbe chiamarsi Naomi François, come suo padre che è di Haiti. Lui e la moglie, che è di Hokkaido, hanno optato per il cognome materno, più gradito in Giappone. Aleksandr Zverev è figlio di Aleksandr Mihajlovic (che è il patronimico) e di Irina Fateeva, russi; lui è tedesco, di Amburgo. Ahmed Abdelwahed, mamma e papà egiziani, è romano “de Roma”; Sasha Zhoya, giovanissimo prodigio degli ostacoli, è nato a Subiaco, Western Australia (aria buona: ci è nato anche Herb Elliott), da mamma francese e papà dello Zimbabwe, gareggia per la Francia; Sina Ugo Adetokunbo è il nome nigeriano dell’ateniese Giannis Antetokounmpo, residente a Milwaukee, cas dei Bucs campioni NBA. L’australiano (di Perth) Daniel Ricciardo, fresco vincitore del Gran Premio d’Italia, è siculo-calabrese. (foto d'apertura).

Il mondo, in realtà, non ha fatto che cambiare e continua a esser d’attualità il dibattito nomadismo/stanzialità che doveva costituire la summa del pensiero di Bruce Chatwin, non fosse stato rapito appena imboccata l’età di mezzo. Da chi viene il nuovo? Da chi si muove, da chi promuove la commistione, non da chi sta fermo. La storia, in questo senso, è piuttosto generosa.

Qualche altro nome, dal passato e dal presente – radici “caucasiche” e camerunensi per Yannick Noah e per Paolo Dal Molin, afroamericane e asiatiche per Tiger Woods, inglesi e tongane per Valerie Adams, afro e tedesche per Andrew Howe – prima di elencare rapidamente quelli che hanno fatto la storia del decathlon grazie a un cocktail di sangue e di cromosomi giusti. Jim Thorpe, Daley Thompson, Dan O’Brien, Bryan Clay, Ashton Eaton. Come era scritto su quella maglietta comprata molti anni fa su un banchetto di Stoccarda, il decathlon non è questione di pelle. Né di confini.

 

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