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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / "Era sola ambizione, la sua?"

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Giovedì 2 Settembre 2021

 

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(gfc) Due parole come premessa. Questo articolo ha una doppia etichetta: come numero progressivo di S.O. porta un tondo 5000 (e fa oltremodo piacere a tutti noi che sia di Giorgio la firma) ed è dedicato a Primo Nebiolo, un uomo che non ho amato negli anni del suo splendore, ma che ancora oggi rimpiango. Io c’ero quella mattina del 1987 quando Primo – entrato nel salone del CONI con la certezza di venire incoronato re – ne uscì stordito e umiliato da una manovra della più bassa e maleodorante politica. Chi orchestrò quel tutto volle che presidente diventasse uno strabordante avvocato milanese che poco o nulla sapeva di sport e che in seguito molto si impegnò per dimostrarlo. Nebiolo aveva tutt’altra statura e natura, pregi pari almeno ai difetti. Ma tanto diverso, che parafrasando proprio l’orazione di Marco Antonio richiamata da Giorgio, credo si possa ancora dire: “Oh, che errore fu quello …”. E, purtroppo, non solo per l’atletica.

Giorgio Cimbrico

Quarant’anni fa, poco prima del via della Coppa del Mondo all’Olimpico dotato di nove corsie, la presa di potere di Primo Nebiolo. Quarto presidente della IAAF, che ora ha accorciato la sigla riducendola a due lettere, WA, dopo uno svedese dal lungo regno, Sigfrid Edström, dopo un aristocratico inglese di antico lignaggio (un avo era stato il segretario di Elisabetta la Grande), campione olimpico e ricco di molti nomi, sintetizzabile in Lord Burghley e dopo un olandese finalista ai Giochi e attivo nella Resistenza durante gli anni oscuri dell’occupazione tedesca dei Paesi Bassi, Adriaan Paulen. Un italiano a governare un mondo anglosassone, nordico. L’uomo può mordere il cane e Primo lo morse.

Viaggiare con lui poteva essere una strana esperienza: se si partiva da Fiumicino era un sommesso coro di buonasera dottore mormorato da poliziotti e finanzieri: lui non doveva esibire documenti. Altrove non riceveva lo stesso trattamento: a Chicago finì in fila, al controllo passaporti, con i comuni mortali, e si fece verdastro e violaceo quando Piero Ottone venne prelevato da un elegante giovanotto che gli risparmiò noie e attese. Poche ore più tardi, a Indianapolis, nessun comitato di benvenuto: prese un taxi maledicendo ‘sti cazzo di americani e non è noto come pagò. Primo di solito viaggiava senza una lira, un dollaro, un sesterzio. De minimis non curat papa. E così a Montecarlo capitò che un suo collaboratore dovesse mettere a nota spese gli aperitivi che aveva offerto a un gruppo di giornalisti italiani, dopo che lui, dal fondo di una tasca del completo antracite, aveva estratto un paio di ciancicate banconote da mille lire che non coprivano il costo di un caffè.

Nei luoghi dove andava era convinto di portare qualcosa di così importante da costringere ad accantonare i problemi quotidiani. E così, quando un giornalista fece presente che l’amministrazione comunale di Canberra si era impegnata finanziariamente per la Coppa del Mondo dopo aver promesso interventi sulla rete fognaria della capitale federale australiana, offerse per i più intimi quel suo tono piagnucoloso che usava nei momenti di dispetto: “Ho portato qui i migliori atleti del mondo e questi mi parlano delle loro fogne”. Lo rabbonì quel buonanima di John Holt, al tempo segretario della IAAF: “E’ un piccolo giornale locale, Primo”.

Battendo sempre nuove frontiere, rischi potevano essere corsi. Nel ’98, Coppa del Mondo a Johannesburg, dopo aver avuto assicurazioni dagli organizzatori che lo stadio, a un tiro di sasso dal mastodontico Ellis Park, tempo del rugby, era tutto esaurito per le tre giornate di gare, venne costretto a confrontarsi con un vuoto assoluto e desolante. In quelle occasioni la fronte veniva solcata da una serie di linee parallele e minacciose e la voce, mai del tutto limpida, si arrochiva sino a tonalità metalliche. La domenica, una carovana di pullmini portò un po’ di pubblico da Soweto, dove lui aveva portato Heike Drechsler e Irina Privalova, scatenando l’entusiasmo dei bambini della township e la commozione delle due campionesse, con ogni probabilità le prime bianche toccate da quei toto.

Era generoso e interessato, missionario e affarista, avversato in patria, specie da un ex-enfant prodige, dotato di fiuto, spesso dialetticamente scorretto, in possesso di una cultura rozza e sconnessa, capace di scovare idee, non tutte realizzate: un meeting-concerto con Bob Geldof, una maratona sul 38° parallelo e una sulla problematica frontiera tra Israele e i territori palestinesi. L’atletica era il messaggio, era la chiave e poteva diventare uno strumento di pace e di potere.

E così, nel 1984, quando il boicottaggio del blocco socialista contro Los Angeles divenne solido, reale, toccò a lui, pontefice dello sport simbolo, volare a Mosca al fianco di Juan Antonio Samaranch per un ultimo tentativo di scongiurare la minaccia. Il rapporto che rese va riproposto parola per parola: “Sono stati gentilissimi, ci hanno accolto al Kremlino, in saloni meravigliosi, con lampadari giganteschi. Ma, per farla breve, ci hanno educatamente mandato a fare in culo”.

Lo sport universitario, prima ancora della presa di potere sull’atletica, gli aveva aperto porte, proposto opportunità, dettato una filosofia politica che più tardi lo avrebbe indirizzato a una riforma all’apparenza democratica: ai vecchi tempi la IAAF era un’assemblea patrizia, con i paesi fondatori dotati di quattro voti, i medi di due, gli altri di uno. Lui, avversato dagli anglosassoni che lo attaccarono senza quartiere, amico del terzo mondo, cambiò le regole del gioco: un paese, un voto. E tutto fu sintetizzato in un breve colloquio diventato trattato, alla vigilia di un’antica Universiade del ’59. “Invitiamo anche Malta? E’ piccola”, esprimeva i suoi dubbi il fido scudiero Angelo Cremascoli. “Matto, è piccola ma ha un voto come la Russia”. In piemontese ha un altro effetto, ma anche così è eloquente. E così aprì le porte a tutti, proprio a tutti, anche a Guam, alle isole Turks e Caicos, a Vanuatu. “Ho più paesi io che l’ONU”, si vantava. E certe manifestazioni sembravano trionfi di Cesare: il tipo grosso e seminudo con lo scacciamosche che veniva da Papua e Nuova Guinea, lo scalzo di Seychelles che correva i 60 e aveva un nome da schiavo, Thierry Brioche, i giovani e spauriti afghani.

Era vanitoso: le suites con pianoforti a coda e statue simil-classiche gli davano un piacere non sottile, così come le staffette motociclistiche che precedevano la limousine e le onorificenze (quelle orientali avevano nomi che riportavano a fasti imperiali) e le lauree honoris causa che gli venivano dispensate. Quando i membri del Senato accademico dell’Università di Stoccarda gliela negarono precisando che l’ultima era stata attribuita a Hegel e gratificandolo di una specie di Croce di Ferro, ricevettero un sorriso agro e formale. L’altra collezione era quella dei potenti incontrati: presidenti, papi (gigantografia in compagnia di Giovanni Paolo II nella sede romana della IAAF), primi ministri, dittatori, teste coronate, in Canada capi Sioux.

Parlava, a modo suo, diverse lingue ma aveva il pregio di capire a fondo chi gli stava davanti, valutare se era accomodante, se poteva o voleva metterlo in difficoltà, se, da parte sua, poteva sbrigarlo con una battuta, per riscuotere l’applauso della platea. Somma di pregi e difetti, protagonista di una lunga parabola, quando si parla o si scrive di lui, anche oggi, ad oltre vent’anni dalla sua morte, viene in mente l’orazione di Marco Antonio sul corpo di Cesare: “Era sola ambizione, la sua?”


 

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