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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
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I sentieri di Cimbricus / Cosa ne sa la gente di Wembley?

Martedì 6 Luglio 2021

 

                          wembley 


Wembley – dove stasera giocano Italia e Spagna – è il nome che in questi giorni martella, istericamente ripetuto dai media che usano strumenti a percussione per far breccia nella testa della gente, impresa assai più agevole di quella che toccò a Enrico V di fronte alle mura di Harfleur.

Giorgio Cimbrico

Cosa ne sa la gente di Wembley? Forse i più vecchi ricordano Nicolò Carosio che diceva. “A Wembley i soliti centomila”. O qualcuno può riesumare un ritaglio del Mirror: “Stasera a Wembey Inghilterra-Grecia: arbitrerà Lo Bello, un siciliano alto sei piedi”. Stupore: i siciliani non sono tutti piccolissimi? E qualcun altro può concedersi, in autonomia mentale o grazie a You Tube, il tocco di piatto di Fabio Capello dopo quella rasoiata di Giorgio Chinagli che non voleva essere un assist. Era il 14 novembre 1973 e il tempio era stato violato, scrisse qualcuno. E, in aggiunta, i leoni di Highbury, vendicati,

Poco meno di cento anni fa Wembley era campagna: tra il 1924 e il 1925 finì al centro del mondo con l’Esposizione dell’Impero Britannico che in quel momento, con l’acquisizione delle colonie tedesche alla fine della Grande Guerra, era più vasto di quello di Victoria. Lo stadio anticipò l’esposizione: il 28 aprile 1923 venne inaugurato alla presenza di Giorgio V con la finale di Coppa d’Inghilterra, Bolton-West Ham 2-0. Circa 200.000 avevano provato a entrare, 126.945 furono ammessi.

Un quarto di secolo dopo, in un‘estate agra e in una città che tirava ancora la cinghia, Wembley ebbe la cerimonia d’apertura e l’atletica dei Giochi risorti e non ancora ecumenici. In una giornata di pioggerella sottile Adolfo Consolini vinse il disco davanti a Giuseppe Tosi e cinque giorni il fato – o il caso –

mise in scena il remake del dramma di Dorando Pietri, ancora a Londra, quarant’anni prima, in altro quartiere e in altro stadio. Il belga Etienne Gailly venne colto da collasso e riuscì, in qualche modo, a tagliare il traguardo con le proprie gambe, riuscendo a salvare la medaglia di bronzo.

Diciotto anni dopo, venne il giorno dei giorni. Tracce e scorie della guerra vivevano e ronzavano nelle teste, nei rancori, nei ricordi. “Stalingrad” dicono abbia bofonchiato tra sé e sé il guardalinee Tofik Bakhramov mentre l’arbitro, lo svizzero Gottfried Dienst, si dirigeva verso di lui per chiedere cosa avesse visto: Dienst non aveva visto niente. Il dialogo avvenne a gesti: Dienst parlava tedesco e francese, Bakhramov, di passaporto sovietico e di etnia azera, russo e turco. E così, a gesti, Bakhramov disse che era gol e Dienst indicò il centrocampo. Ai tedeschi non rimase che protestare e pensare che avevano ancora quasi venti minuti per un altro miracolo.

Sotto le tettoie di Wembley stava nascendo uno slogan spietato che per anni sarebbe stato martellato ad ogni incrocio dei Tre Leoni con gli Unni: “Two World Wars and One World Cup, due guerre mondiali e una coppa del mondo”. Era il seguito ritmato di quanto, quella mattina del 30 luglio 1966, aveva scritto il Times: “Oggi, a Wembley, Inghilterra e Germania giocano la finale della Coppa del Mondo di calcio, il nostro sport nazionale. Comunque vada, in questo secolo li abbiamo battuti due volte nel loro sport nazionale”. Il politicamente corretto, allora, non esisteva. E tutto era molto chiaro. Nessuna zona d’ombra.

Su quell’11’ del primo tempo supplementare sono stati versati, come si diceva una volta, fiumi di inchiostro, e assemblati filmati e sequenze fotografiche di non grande nitore e di dubbia chiarezza. Di individuabile ci sono il cross di Alan Ball (uno della schiera che se n’è andata: Moore, Banks, Peters, Jackie Charlton, Stiles) e la girata al volo di Geoff Hurst: palla sotto la traversa e sulla linea prima di rimbalzare in campo. Tilkowski, il portiere tedesco, fa no con il braccio, Roger Hunt è il primo a esultare e si trasforma in un testimone: “Ero vicino e avrei potuto ribadirla dentro, ma non ce n’era bisogno”.

Il tentativo di ricostruzione più convincente venne fatto in un laboratorio di Oxford e portò alla conclusione che mancavano dai 3 ai 6 centimetri perché la palla avesse varcato la linea per intero. In un suo libro di memorie, Bakhramov scrisse di non aver realizzato che la palla avesse colpito la traversa ma che fosse tornata in campo dopo che la rete aveva funzionato da elastico. Come spiegazione non è granché, ma è quella che è stata tramandata, insieme ai gesti di assenso rivolti all’accigliato e preoccupato Dienst.    

La partita, vista dai 96.924 dello Stadio Imperiale, da 32 milioni e 300 mila britannici grazie alla BBC (è ancora un record) e da 400 milioni nel resto del mondo, non era ancora finita. I tedeschi spesero la sabbia che scorreva nella clessidra occupando la metà campo inglese. Il 120’ stava arrivando, qualcuno era in agguato sulle linee laterali per invadere e dare sfogo alla gioia. “It’s all over, it’s now, it’s four, è finita, è ora, sono quattro” si lanciò in un prolungato acuto Kenneth Wolstenholme, che sedeva dietro al microfono della BBC quando su un rilancio in una zona deserta Geoff Hurst scaricò una botta terribile all’incrocio. “Ho colpito forte perché speravo di buttarla in curva. A occhio, avevo capito che stava finendo e così, tra recuperare la palla e rimetterla in gioco, tempo non ne sarebbe rimasto”. Invece la palla finì dentro, sul tabellone manuale il risultato venne corretto in 4-2 e l’attaccante dello West Ham divenne l’unico ad aver segnato tre gol in una finale mondiale. Lo è tuttora.

La prima esultanza – Moore sulle spalle di Hunt e di Ray Wilson, con Martin Peters che guarda felice – è diventata un gruppo bronzeo e il capitano, scomparso a 52 anni, ha avuto un’altra statua, all’ingresso principale del nuovo Wembley. Un monumento lo ha avuto anche Alf Ramsey, scomparso nel ’99, ma è a Ipswich dove il ct portò un titolo della Football Association, mai agevole per una provinciale. Ramsey era un uomo spiccio, della vecchia scuola. Quando gli chiesero quale era stata l’esperienza che gli aveva segnato la vita, rispose: “Il servizio militare durante la guerra”. Non aveva combattuto battaglie, solo sorvegliato le coste nel reggimento del duca di Cornovaglia, ma aveva fatto il suo dovere.

Con la maglia bianca addosso, da terzino, aveva avuto delusioni terribili: era in campo a Belo Horizonte quando gli USA piegarono i “maestri” che per la prima volta si erano degnati di frequentare il resto del mondo, e tre anni dopo, a Wembley, venne costretto a misurare la distanza – siderale – che divideva il calcio inglese da quello ungherese: 3-6. Qualche mese dopo, al Nepstadion di Budapest, andò anche peggio: 7-1. Quando il vecchio Winterbottom gli lasciò il posto, Alf (lo chiamavano il Generale anche se sotto le armi era arrivato al grado di sergente maggiore) si limitò a una parola: “Vinceremo”. E vinse, riuscendo a mutare un cristallizzato gioco inglese fatto di traversoni con uno schieramento che, nelle partite decisive con Argentina (Alf venne accusato di averli chiamati animali) e Portogallo, venne battezzato Wonder Wingless, la meraviglia senz’ali. Peters e Ball stavano piuttosto stretti a far reparto di mezzo con la lucidità e l’eleganza di Bobby Charlton e con il vigore (chiamiamolo così …) di Nobby Stiles.        

Quel pomeriggio viene spesso assorbito nei pochi istanti finiti nel repertorio dei grandi interrogativi. Prima c’era stato il vantaggio tedesco (i vecchi bolognesi ricordano Helmut Haller con affetto), il colpo di testa di Hurst, il vantaggio inglese (di Peters) a meno di un quarto d’ora alla fine, la furibonda mischia e il tocco di Wolfgang Weber che infilò Gordon Banks detto il Cinese quando il tempo stava scadendo, rinviando a supplementari storici quanto quelli, quattro anni dopo, di Italia-Germania 4-3. Dopo, toccò a una quarantenne regina Elisabetta in giallo tuorlo premiare un gruppetto di suoi sudditi singolarmente in maglia rossa. Del calcio non le è mai importato molto, ma le immagini di quel giorno la offrono sinceramente felice.

Ho fatto in tempo a cenare nella Banqueting Hall dove erano esposti memorabilia che avrebbero portato alle lacrime collezionisti spietati nelle contrattazioni, ho visto la folla fendersi davanti al vecchio Ramsey sorretto da Hurst, ho provato dispetto e rabbia quando hanno buttato giù le due torri e sono stato costretto ad ammettere che hanno fatto un buon lavoro. L’ho capito andandoci, notando la perfetta acustica (cozzo dei corpi in Nuova Zelanda-Argentina), appuntando le date cardine che sono anche i nomi dei bar, ammirando l’agorà tutto attorno. Ma la vera rivelazione è venuta all’inizio di un atterraggio: il tempo era perfetto e l’arco brillava, illuminato dal sole.

 

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