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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / "Non furono giorni facili"

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Giovedì 20 Maggio 2021

 

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Se n’è andato a 74 anni Lee Evans, uno dei titani di Messico ’68, l’abbattitore della barriera dei 44 secondi nei 400: 43”86, ancora dodicesimo di sempre dopo 53 anni. Un ictus gli è stato fatale mentre si trovava a Lagos, in uno dei suoi frequenti ritorni in Africa per diffondere atletica e diritti umani.

Giorgio Cimbrico

Evans venne dieci minuti dopo il volo di Bob Beamon, alle 15,50 del 18 ottobre 1968, in quella che avrebbe potuto essere una finale monca, senza il prim’attore. Dopo la cacciata di Smith e Carlos dal giardino poco incantato della squadra americana, Lee si era domandato “Che ci faccio qui?” ed era stato proprio Carlos a convincerlo: “Corri, fallo per i fratelli”.

E così Lee ebbe a disposizione una gara che era un inno alla “negritude” cantata da Leopold Sedar Senghor, uno dei pochi poeti chiamati a governare un paese e un popolo: Evans, Larry James, Ron Freeman, americani, Amadou Gakou, senegalese come il presidente-poeta, Tagegne Bezabeh etiope, Amos Omolo ugandese. Sei su otto: i bianchi erano il tedesco Martin Jellinghaus e il polacco Andrzej Badenski.

In questo mezzo secolo Smith e Carlos sono diventati i simboli della protesta ma la presenza di Evans all’interno dell’Olympic Project for Human Rights era forte e determinante quanto quella di Tommie. I due si conoscevano bene e all’università di San José avevano lo stesso allenatore, Lloyd Winter, per tutti “Bud” che assegnò a ciascuno orari differenti di lavoro sul campo. Ma il 20 maggio 1967 i due finirono per ritrovarsi faccia a faccia, sulla solita pista, per un meeting a inviti che aveva un solido e dichiarato scopo: abbattere il record dei 400 e del quarto di miglio.


Evans era un quattrocentista, Smith no: “Avrebbe potuto essere la mia distanza ma mi ci sono dedicato poco”, confessò più di una volta “Jet” che aveva gambe smisurate. A quel punto “Bud” si sbilanciò: “Sì, penso che Tommie possa fare il record del mondo. Direi 42” alto, 43” basso”. Esagerava o forse già vedeva nella sfera di cristallo le galoppate di “Butch” Reynolds, di Michael Johnson, di Wayde van Niekerk. La sfida fu bellissima: Evans partì forte (10”9 e 21”5), due decimi davanti a Smith che prese la testa alle 330 yards, passate in 33”5, tre decimi sul rivale. Al traguardo, 44”5 sulla distanza metrica, 44”8 sull’imperiale e doppio record del mondo. Lee chiuse in 45”3 sul quarto di miglio, da tradurre in 45”0, a un decimo da Otis Davis, Carl Kaufmann, Mike Larrabee.

“Non furono giorni facili”, ha raccontato molte volte Lee ricordando le tensioni che sprizzavano scintille. Ricevette anche delle minacce: “Ho sempre pensato che avrei potuto correre più forte se in pista mi fossi presentato con l’animo più tranquillo”. Quella mattina qualcuno lo vide piangere: l’espulsione dalla squadra e dal Villaggio di Tommie e di John lo avevano ferito.

“E così alla fine decisi di andare e corsi sino in fondo. Anzi, corsi 401 metri perché sapevo che Larry sarebbe stato pericoloso. Solo che lui corse 395 metri”. È la sintesi di un testa a testa tra Lee e quel buonanima di Larry James – scomparso nel 2008 per cancro, il giorno del 61° compleanno – che portò una doppia discesa sotto i 44” nel tempo in cui un secondo di più rappresentava la qualità assoluta. Quando nel 1974 la IAAF inaugurò la cronologia dei record con cronometraggio automatico il 43”8 diventò 43”86 e il 43”9 di James si trasformò in 43”97. Avrebbero assicurato il primo e il secondo posto ai Mondiali di Londra del 2017.

Fu la demolizione di un altro muro e la fine delle polemiche sulle scarpette a 44 chiodi (brush spikes, scarpe-spazzola) usate dagli americani nell’avvicinamento ai Giochi messicani, nelle gare in altitudine di Echo Summit. A spaccare il quarto di miglio Lee e James erano pronti da tempo.

Un altro podio a pugni chiusi, senza la sacralità impressa da Smith e Carlos, ma sufficiente per riattizzare il falò. Evans, James e Freeman si tolsero il basco nero al momento dell’inno per non venire sbattuti fuori: “C’era ancora la staffetta da correre”. Esiste una foto bellissima, naturalmente in bianco e nero, riproposta dall’Équipe per il 70° compleanno del quotidiano: Evans, James e Freeman (terzo in 44”41, prestazione da medaglia d’oro in tutti i Giochi precedenti e in un paio di quelli a venire) sono nella sala delle conferenze, le pareti sono coperte dalla scritta “Olivetti Centro de Prensa”. In testa hanno il basco nero, quello delle Black Panthers.

Qualcuno fra i giornalisti che si assiepano o sono seduti ai loro piedi ha appena domandato a Lee: “Perché il pugno?”. “È un modo di salutare la gente: ciascuno ha il suo”. Lo sguardo è senza rabbia, alla ricerca di un altrove. Per Lee, per lunghi anni, sarà l’Africa delle radici.

 

 

 

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