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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / Storie di razzismo, tra esclusione e riscatto

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Giovedì 26 Settembre 2019

 

chester-williams


Ogni tanto ritornano, un po’ come il volo delle locuste. Difficile scrutare il lato oscuro del razzismo, sempre sospeso nel limbo tra omertà e superficialità. E una sospetta dose di ipocrisia.

Giorgio Cimbrico

Quando nel calcio italiano si parla di razzismo, gli atteggiamenti degli addetti dei lavori sono affacciati su una pietosa tragicommedia con vene – grosse come gomene – di omertà o con forti problemi di udito. Gli arbitri di solito non sentono gli ululati, così come i delegati della federazione, e al massimo ci si limita a brevi pit stop. La maggior parte degli allenatori, commissario tecnico incluso, nega che esista il razzismo. “Sono quattro stupidi …”, è la formula ricorrente. Per fortuna, qualche giocatore, come le formiche di Gianni e Michele, si incazza.


Che il fenomeno, in Italia, sia in aumento lo ha sottolineato qualche giorno fa Gianni Infantino, presidente della FIFA, con la scontata appendice che fenomeni del genere esistono anche altrove. E così mi è venuta la voglia di raccontare qualche “opera al nero” (Marguerite Yourcenar mi perdonerà per la piccola ruberia) di esclusione, di riscatto, di ipocrisia, anche.

Da quando James Peters, detto Darkie Jimmy, fece il suo esordio e scandì la primogenitura – era il 1906, in piena età edoardiana – per 82 anni un nero non giocò per l’Inghilterra ovale. A stringere nelle mani quel filo, perso in un labirinto di intolleranza e di rigido conformismo, toccò al bel Chris Oti che, dopo l’esordio nella Calcutta del 1988, contribuì, con l’hat trick concesso contro l’Irlanda, alla nascita di un amatissimo inno non ufficiale: “Swing Low Sweet Chariot”. Musica nera nel tempio bianco di Twickenham.

In una pinacoteca virtuale, James detto Jimmy ha il diritto di stare al fianco di Dido Elisabeth Bell, la ragazza del settecentesco ritratto di Kenwood House, pronipote di William Murray conte di Mansfield, parentela trasmessagli dal padre, ufficiale di marina che aveva amato una ex-schiava delle Indie Occidentali. Anche il padre di James, George, veniva da una di quelle isole nella corrente, la più grande e prolifica, la Giamaica. Emigrato in Inghilterra, aveva incontrato Hannah Gough, originaria dello Shropshire: James nasce nel 1879 a Salford, circondario di Manchester.

George lavorava in un circo e morì in un modo drammatico, nella gabbia dei leoni. Hannah non poteva prendersi cura di Jimmy e lo cedette a un altro circo, come cavallerizzo in erba: un braccio spezzato durante un esercizio lo allontana dalle arene e gli fa varcare i portoni dell’Orfanotrofio di Greenwich, diretto da James Fegan che ha lasciato di lui note sospese tra l’ammirazione e l’incredulità di trovarsi davanti a una creatura molto speciale: “Elastico come fosse fatto di gomma in certe parti del corpo e duro come l’ebano in altre: era il campione in tutte le attività sportive, il corridore più veloce, quello che lanciava gli attrezzi più lontano, il capitano della squadra di cricket e di rugby”. Negli stessi anni un altro magnifico cocktail di sangue irlandese e pellerossa, Jim Thorpe, stava crescendo in una riserva dell’Oklahoma senza sapere di dover vivere una storia di successi e di esclusione.

All’orfanotrofio viene avviato al lavoro di carpentiere: si stabilisce a Bristol e trova spazio, da apertura, nei Dings, nel Knowle e, finalmente, nel Bristol FC. Il clima è freddo, ostile: al suo arrivo un membro del direttivo si dimette e un giornale locale lo descrive come “un negro pallido”, sottolineando che con lui in squadra “un bianco deve star fuori”. Si sposta a sud, a Plymouth dove trova subito posto sia nell’Albion che nella selezione: con il Devon gioca il campionato delle contee del 1906 e giornali meno “codini” di quelli di Bristol invitano la Rugby Football Union a tenerlo in considerazione. “Difficile non sottolineare la grande forma mostrata da Jago e Peters nel giorno della vittoria del Devon sulle Midlands. Hanno surclassato l’altra coppia di centri e l’opinione generale è che sabato prossimo dovrebbero giocare con l’Inghilterra. Ma chi comanda è di altro avviso e il colore ha fatto la differenza”. Jago e altri cinque giocatori del Devon vengono selezionati. Peters no.

Il Plymouth Football Herald parla di “consuetudini razziali”, lo Yorkshire Post spiega che “la chiamata non sarebbe stata popolare”. Nell’Home Championship l’Inghilterra cede sia all’Irlanda che al Galles. Il 12 marzo è in programma la finale del Country Championship e il Devon batte Durham 16-3 e Peters ne esce da trionfatore. Cinque giorni dopo è titolare contro la Scozia a Inverleith e ispira due mete catturando la Calcutta Cup su suolo nemico. Altri cinque giorni ed è a Parigi per un match “supplementare” contro i francesi in lista d’attesa, battuti 8-35. Una delle nove mete è sua. La tecnica di passaggio è definita dazzling, abbagliante. Ma in autunno, per i due test contro gli Springboks, il suo nome non compare. Prima di un match infrasettimanale, proprio contro il Devon, i sudafricani avevano lanciato il loro ricatto: “Se gioca quello, non lasciamo gli spogliatoi: non dividiamo il prato con un negro”.

Nell’Home Championship del 1907, che l’Inghilterra chiude con Il Cucchiaio di Legno, Jimmy va in campo contro Irlanda e Scozia. Il Plymouth Football Herald lo vota uomo dell’anno: “Per noi Peters ha una dignità che tanti bianchi non hanno raggiunto”. Dopo un’ultima chiamata, nel 1908 (sconfitta 18-28 con il Galles, a Bristol), Peter perde tre dita della mano sinistra mentre lavora a una macchina a vapore. L’Albion decide di organizzare una partita in suo onore e l’iniziativa compromette il suo status di dilettante. Si sposta a nord, dove era nato, e raggiunge la League, il gioco a XIII, prima il Barrow, poi il St Helens. Quando muore, nel ’54, il Times gli dedica cinque righe, il Guardian nessuna. Ripercorrendo la vita di Jimmy, il primo nero, Andy Bull ha scritto che, dopo tutti quegli anni, si trattava di saldare il debito contratto in passato.

Il mese scorso se n’è andato a 49 anni Chester Williams, la Black Pearl, in quell’inizio estate del 1995 il destinatario di quegli striscioni, di quei maxi ritratti (Waiting’s Over, l’attesa è finita) che tappezzavano le facciate di Johannesburg e di Capetown, Qualcuno disse che era uno specchietto per le allodole. Di certo c’è che Chester fu la Quota Nera, l’ammesso, il promosso, il prescelto, il primo volto scuro del Sudafrica dopo quelli di Errol Tobias e di Avril Williams, suo zio.

Chester era nero? Secondo le categorie stilate durante il periodo di infamia e intolleranza che venne etichettato come un’arida stagione bianca, era un coloured. Nei viaggi di propaganda che precedettero la Coppa del Mondo, ebbe più contatti con la gente di una township Mark Andrews, bianco che parlava xhosa. Chester non lo parlava.

Si ritrovò coinvolto in vicende che scossero un paese e finirono per scuotere anche lui. Era ben accetto in una squadra molto boera? “Qualche offesa volava”, disse, indicando James Small, uno dei quattro che se ne sono andati di quella squadra (gli altri sono Kruger e van der Westhuiwen, piegato dalla Sla) prima di rettificare: se apprezzamenti sgradevoli erano stati fatti, risalivano a certe partite della sentita Currie Cup. “Tra gli Springboks lo spirito era buono”.

Un uomo in bilico, in una stagione in cui ogni decisione che veniva dai Parliament Buildings di Pretoria doveva essere pensata e pesata. Il Sudafrica era una polveriera, Nelson Mandela lo sapeva e toccava a lui spegnere la miccia, riavvolgere quel filo incatramato nell’odio, far amare quel che era detestato e che anche Chester, in gioventù, non aveva amato: un’antilope saltante. Se l’era ritrovata addosso per la prima volta a Buenos Aires, il 13 novembre del ’93, quando gli Springboks avevano strappato unghie e artigli ai Pumas: 52-23, con una meta sua. Un anno e mezzo dopo, sotto il segno dell’arcobaleno e all’ombra di una bandiera molto africana, non più connubio tra memorie britanniche e invadenza boera, Chester era alle prese con problemi tendinei e muscolari. Saltò la fase a gironi, evitò la solenne scazzottata di Port Elisabeth con i canadesi e proprio dalla squalifica che piombò sul capo di Pieter Hendricks ebbe via libera per il match con Samoa. Quattro mete, sue. Non era più la Black Pearl, era uno dei quei diamanti che venivano scoperti a Kimberley e che aspettavano di esser molati per mostrare la loro lucentezza.

Chester era nato a Paarl, dove fanno un eccellente bianco. Anche lui aveva un buon cru. Non apollineo, ma capace di accelerazioni improvvise, di un buon gioco di gambe, in finale non ebbe modo di mettere in mostra quelle attitudini ma la giornata fu del Paese giovane e pieno di speranze e del suo magnifico ex-ergastolano dal sorriso sempre sincero. Il Gandhi del nostro tempo.

Chester vagabondò per l’Africa – Tunisia, Uganda – e per l’Europa: Romania, fugacemente Italia. Quando Clint Eastwood volò in Sudafrica per girare Invictus lo volle tra i consiglieri tecnici per regalare suggerimenti a Matt Damon/Francois Pienaar, alla banda degli Springboks da schermo e al giovanotto che interpretava la sua parte: si chiamava McNeil Hendricks e Chester tornò a specchiarsi nel suo passato.

 

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