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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Giochi Olimpici di Pechino: le due facce delle medaglie azzurre

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    Missione compiuta? La squadra italiana (347 componenti, anche se poi in gara sono scesi in 334) da Pechino riporta a casa 28 delle 958 medaglie distribuite, otto delle quali del metallo più pregiato (quanto quelle del ragazzo bionico Michael Phelps che però le ha condite di almeno sette record mondiali), oltre a dieci d’argento e dieci di bronzo. Un bilancio sufficiente, si dovrebbe dire, con un nono posto palindromo nel medagliere, sia lo si legga in termini di medaglie d’oro, sia di medaglie complessive. C’è da essere soddisfatti con moderazione, senza per questo giustificare i toni esaltati del presidente del CONI Gianni Petrucci che, nella conferenza conclusiva, hanno suscitato qualche perplessità tra gli inviati italiani. In sede di pronostico l’autorevole Sports Illustrated ce ne attribuiva 27 con 7 ori, in controtendenza rispetto ai profeti di casa nostra come il capo-delegazione Pagnozzi che, con slancio patriottico e un po’ interessato, ne aveva indicato 44, seguito a ruota dalla Gazzetta che si fermava a 40.

  Il totale di 28 medaglie – sia pure in costante decremento rispetto alle ultime edizioni: erano state 35 nel 1996, 34 nel 2000, 32 nel 2004 – fotografa abbastanza fedelmente i chiaro-scuri che hanno caratterizzato lo sport italiano sul palcoscenico olimpico. Il quale sport italiano ha tenuto le posizioni grazie soprattutto ai meno noti e ai più umili; ha fallito per lo più con le sue stelle più celebrate e più attese; ha seguito l’andamento dell’Europa che continua a perdere posizioni nei confronti dei continenti sportivamente più giovani (e più poveri): gli atleti europei hanno infatti vinto complessivamente 452 medaglie – più del doppio dell’Asia –, mentre ad Atene ne avevano ottenute 487 e a Sydney 503.
 
    Cina-Usa: match pari. Non per nulla in cima al medagliere, per la prima volta esteso a 87 nazioni sulle 204 partecipanti (erano state 74 quattro anni prima), si collocano i padroni di casa con un totale di 100 delle quali 51 d’oro e gli statunitensi che prevalgono nel totale (110), ma cedono per il numero dei primi posti (36). Due modelli sportivi diversi tra loro e non troppo lontani dal passato quando a confrontarsi per la supremazia a cinque cerchi erano Stati Uniti e Unione Sovietica. Lo sport cinese da una quindicina d’anni ha focalizzato la sua attenzione (e le notevoli risorse statali) sulle Olimpiadi di casa, dedicandosi con cura maniacale al reclutamento e a sviluppare discipline di secondo livello dove ha fatto incetta di medaglie. Con una sola defezione: quella dell’ostacolista Liu Xiang, icona del consenso che ha circondato il progetto Pechino 2008, infortunatosi, ma sceso egualmente in pista ad onore dei contratti pubblicitari. Profondamente diverso il modello americani che poggia sulla rete dei college e si sostenta solo in parte (vedi il basket targato NBA) sull’organizzazione professionistica. Quale esempio si può portare il caso della pallavolo, titolo che gli americani hanno vinto superando in finale il Brasile benchè negli States non esista un campionato nazionale di volley e la gran parte dei neo-olimpionici giochi all’estero.
    Una lettura non superficiale del medagliere suggerisce altre considerazioni. Balza agli occhi come non siano più d’una dozzina le nazioni attestate oltre quota 20 medaglie e che tra questa fascia privilegiata e il resto del mondo si scavi un abisso sempre più profondo. Resta così difficile non credere a una correlazione tra il medagliere e il peso dei differenti PIL nazionali. Con buona pace di chi si appella ancora alla tradizione come motore e anima dello sport olimpico. Anche perché la presenza ai Giochi di molti paesi del secondo, terzo o quarto mondo assume il più delle volte il sapore di una improvvisata avventura goliardica (vedi il caso del Brunei che a Pechino ha scoperto d’aver dimenticato di iscriversi). Si sono di contro visti paesi in grande espansione, come la Gran Bretagna che, proiettata a Londra 2012, sta completando un grande piano di sviluppo approntato all’indomani della deludente edizione del 1996 quando gli atleti di sua maestà portarono a casa solo una medaglia d’oro. Questa volta il loro numero è salito a 19 (sono state 47 quelle complessive). O come la piccola Olanda, cresciuta fino a 16 medaglie di cui sette d’oro, a fronte di un finanziamento pubblico annuale inferiore a 200 milioni (meno della metà di quello italiano).    Il datato modello italiano. Pechino ha confermato la crisi dei club tradizionali, spina dolorosa del nostro sport. La stragrande maggioranza dei medagliati italiani a Pechino appartengono infatti a gruppi sportivi militari, i soli in grado di garantire un accettabile futuro una volta chiusa l’attività agonistica. La crisi si è toccata con mano nei tornei di squadra dove gli italiani, quando pure qualificati, si sono visti relegati a ruoli secondari. Quale esempio illuminante si guardi il chiacchierato calcio ritornato alla solita brutta figura. Per di più esaltata dall’aver consentito ai semisconosciuti calciatori olimpici il rientro in Italia in classe business, mentre tutti gli altri (vincitori di medaglie d’oro comprese, in testa Maria Valentina Vezzali) viaggiavano in turistica.
    A corollario si può infine notare che la nostra squadra era tra le più “anziane” presenti a Pechino con un’età media vicina ai 28 anni (quattro anni fa l’età era stata di 27 anni e tre mesi). E che molti medagliati sono oltre i 30 anni; ma va anche detto che almeno 10 dei 40 vincitori di medaglie erano al loro esordio olimpico. Senza volersi rifare ai soliti esempi (dal quarantenne portabandiera Antonio Rossi alla inossidabile Josefa Idem che, se continuerà come ha promesso al presidente Napolitano, a Londra di anni ne avrà 48 …), va auspicato un profondo ricambio generazionale capace di invertire la tendenza dei giovani a trascurare lo sport agonistico. Una esigenza che pare sentita anche dal presidente del CONI quando si appella al mancato ruolo della Scuola. In una nazione che ha due milioni di analfabeti e almeno una diecina di ritorno, i compiti della Scuola sono già mostruosi senza doverle imporre anche un generico avviamento allo sport.
    Il cosiddetto modello sportivo italiano mostra delle sfilacciature e pare incapace di adattarsi alle nuove realtà del Paese (a cominciare dal continuo afflusso di atleti stranieri in tutte le discipline). Per di più deve confrontarsi con una realtà giovanile profondamente diversa dal passato e i cui miti di riferimento sono, purtroppo, sempre più lontani dallo sport olimpico. Una tendenza che trova la sua più chiara dimostrazione nell’atletica. E un disagio che non si può temperare ricorrendo al solo pallottoliere delle medaglie. In sintesi si avverte l’esigenza di una rapida rinfrescata e, quel più conta, di una iniezione di nuove energie per un gruppo dirigente che, nome più o nome meno, è sulla breccia da almeno quarant’anni.
    Scelte che dovranno essere fatte anche in fretta: da Pechino l’autobus rosso diretto a Piccadilly è già partito.

 

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