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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / Piccola appendice di Spoon River

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Giovedì 8 Agosto 2019

danielsen

Tre grandi nomi di altre epoche che hanno fatto storia - tra Giavellotto e Maratona - e che ci hanno lasciato quasi negli stessi giorni. Un doveroso contributo alla loro memoria.

Giorgio Cimbrico

Jorma Kinnunen, Egil Danielsen (nella foto) e Basil Heathley sono morti a breve distanza l’uno dall’altro senza che sia stato concesso loro spazio. Così come non ne ha avuto Brian Lochore, leggenda All Black e interprete dello stesso periodo storico. La storia più curiosa è quella di Danielsen, classe ’33, nativo di Hamar, nei pressi di Oslo, e destinato, dopo il ritiro, a servire nella locale stazione dei pompieri. Nella finale olimpica di Melbourne l’unico a lanciare con un giavellotto di metallo era il polacco Janusz Sidlo che aveva avuto modo di impratichirsi con l’invenzione dei fratelli Held grazie a Giorgio Oberweger: a Milano, il 30 giugno 1956, il vulcanico atleta-allenatore-dirigente-inventore gliene aveva consegnato uno che aveva appena portato dagli Usa e Janusz l’aveva spedito a 83.66, record del mondo sottratto per dieci centimetri a Solni Nikkinen.



A metà della gara olimpica Sidlo guidava con 79.98 e Danielsen era sesto, poco più di 72 con il suo attrezzo in legno. “Vuoi provare con il mio?”, disse Janusz a Egil. “A questo punto, …” pensò il norvegese e accettò l’offerta, così come accettò la tazza di caffè forte che gli venne allungata dal francese Michel Macquet, anche lui nelle retrovie della finale in compagnia di Giovanni Lievore. “Mai lanciato un giavellotto di metallo e mai bevuto un caffè: mi sentii un leone”. Risultato, 85.71, record del mondo, vittoria con un margine mostruoso, quasi sei metri. Non è noto se Sidlo si sia pentito del gesto di amicizia, di cavalleria,ma buona parte del merito va attribuita anche a Macquet: quel caffè ebbe su Egil lo stesso effetto degli spinaci su Braccio di Ferro.

Giavellotto in finlandese si dice keihas ed è inutile stare a rinvangare ancora una volta il sisu e l’amore profondo di un popolo per un gesto che riporta a tempi ancestrali: Jorma Kinnunen, nato nel dicembre del ’41, fu uno degli inventori del Keihas Carnival di Pihtipudas, sospeso tra la festa campestre e il rito. Era un lanciatore di piccola taglia che al Mexico provò a metter sale e pepe sulla coda di Janis Luis che la spuntò: 90.10 a 88.58.

Meno di un anno dopo, Jorma praticò una non sottile vendetta riportando il record del mondo in Finlandia e di pari passo stabilendo anche il primato sul suolo di Suomi: era 91.98, proprio del lettone Lusis, a Saarijarvi, e Kinnunen a Tampere sposto il limite a 92.70. Al momento della doppia’impresa il figlio Kimmo aveva poco più di un anno: sarebbe diventato campione del mondo nel ’91 e vice due anni dopo.

Basil Heatley, calsse ’33, nativo dello Warwickshire, aveva uno di quei volti allegri che di solito, nei film bellici, hanno gli attendenti, svelti a portare un tazza di tè al loro ufficiale. Campione del mondo di corsa campestre nel 1961, quando l’appuntamento aveva ancora il nome romantico di Cross delle Nazioni, aveva assaggiato giovane la Maratona, nel ’56, con un interessante 2h23'01". Se ne era allontanato ed era tornato a frequentarla per l’anno olimpico: il 13 giugno 1964, nella classica Polytechnic Harriers Marathon, da Windsor a Chiswick, chiuse in 2h13'55" miglior tempo al mondo (Ron Hill, alle sue spalle, in 2h14'12" diventò il secondo di sempre), un minuto e venti secondi sotto il Bikila romano, mezzo minuto in meno dell’americano Buddy Eleden un anno prima, sulle stesse strade.

A Tokyo Bikila, operato di appendicite poco più di un mese prima, demolì le ambizioni di Ron Clarke e dei giapponesi. L’ultimo a cedere, poco prima del 35° km, fu l’irlandese Ben Hogan. Heatley marcò Kokichi Tsuburay, lo agguantò in pista e lo lasciò a tre secondi, argento come Tom Richards nel drammatico finale di Londra’48. Bikila era arrivato da quattro minuti e dopo la doppietta e il record del mondo portato a 2h12’11” si stava sgranchendo. Tsuburaya non si riprese mai dalla delusione e prostrato nel fisico e nella mente quattro anni dopo si suicidò.

 

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