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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Fatti&Misfatti / Nel tempio, sotto il casco del barbiere

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Lunedì 17 Giugno 2019

 

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Quarta partita per la finale scudetto fra Sassari e Venezia (95-88) arrivate al limite di resistenza fisica e mentale in una inaspettata conclusione di stagione, regalo che non potevano sognare migliore.

Oscar Eleni

Accompagnato da Apollo, il leone tigre che sconvolge la natura, per fargli annusare la bella lavanda di Birhuega, Spagna, La Mancia, dove almeno hanno un bel tempio che si può vedere senza mettersi l’elmetto come a Camerino, vergogna nostra o Notre Dame, vergogna del mondo. Posti da scegliere guardandosi bene in giro se ti pigliano a bottigliate per una maglietta, se ti sparano per il rumore degli altri, se devi fare una veglia di protesta cercando di capire il romanista che non accetta l’addio, anche come dirigente, di Francesco Totti, il sentimento, come dice Veltroni, se cerchi di comprendere la Juventus e Sarri calpestato ancora prima di iniziare come Capello, Ancelotti e Allegri.

Lo strano mondo del professionismo: Sarri cacciato ingiustamente da Napoli trova al Chelsea il rifugio ed una coppa europea. Poi, da professionista, valuta l’offerta della vita, che non è certo quella dei molti pescati a trafficare partite come nel caso Frosinone, sa di rischiare perché, come minimo, deve rivincere lo scudetto ormai seriale in casa bianconera, accetta ed eccolo alla gogna. Via le targhe, chi lo amava a Napoli, tutti meno il presidente, lo odierà per sempre. Succederà la stessa cosa se davvero Chiesa dovesse andare via da Firenze, professionisti, ma con il collare messo da chi crede ancora in questo cinema Inferno. Non tutti hanno la fortuna di Icardi o Dybala, che, se dovessero andarsene, sarebbero rimpianti da pochissimi.

Circo che coinvolge tutti gli sport, diciamo professionistici, se è vero che a Milano, nel basket, contestavano Pianigiani anche prima che sbagliasse la stagione dispari, mentre adesso arricciano il nasino quelli che amavano l’ex virtussino Dan dell’Illinois, ma non sopportano il Messina che se ne andò dall’Italia più o meno con le motivazioni di Capello e altri allenatori: fischi, insulti, inciviltà, non è sport.

A proposito per chi sta preparando il memoriale agiografico dell’ex presidente prestanome dell’Armani ecco una dichiarazione di Sergio Scariolo appena diventato campione NBA con i Toronto Raptors, perla in una carriera piena di successi, da Pesaro alla Spagna, con i club, soprattutto con la Nazionale, l’uomo al gel che a Milano non ha trovato risultati e fortuna, ma, come ha detto nell’intervista a Fuochi per Repubblica, non basta prendere il grande nome e dargli pieni poteri, serve una società forte, come all’Olimpia non hanno mai avuto in questi anni.

Ohi ohi don Sergio adesso chi le sente le vedove del passato senza traccia in una società che aveva lasciato pure qualcosa, titoli, giocatori, allenatori, dirigenti, nella storia del basket dal 1946 al 1989.

Certo Scariolo è uno dal tocco magico: primo anno a Pesaro e titolo, prima esperienza NBA e anello. Beato lui anche se sul carro ritroverà il generone che lo idolatrava quando girava da queste parti. Soliti noti. Gente che vorrebbe dirci come pensare e cosa credere, quelli che, per fotografare lo stato penoso del basket societario in Italia, suggeriscono a chi rivolgersi in quelli che erano giornali da battaglia e sono diventati soltanto bollettini a pagamento.

Il basket che picchia in testa e si nasconde di notte, andando persino a sbattere sulla Under 21 in una domenica bella libera da impegni, ma non certo da dedicare alla quarta partita per la finale scudetto fra Sassari e Venezia arrivate al limite di resistenza fisica e mentale in una inaspettata conclusione di stagione, regalo che non potevano sognare migliore, dopo l’anno nel vino inacidito.

Guardando soffrire e gioire, urlare e berciare ci è venuta in mente una delle tante storie che rendevano speciale vivere il Palio di Siena nelle contrade: gloria ad Aceto o Trecciolino, plurivincitori, ma anche al cavallo scosso. Ecco, Dinamo e Reyer, nei finali, senza luce, ossigeno, sembrano davvero berberi che hanno fatto cadere il fantino all’ultima curva del Casato.

De Raffaele cerca di risolvere disegnando sulla lavagnetta. Pozzecco, spesso, la fa volare e punta diritto al cuore e al cervello ormai stordito dei suoi giocatori. Pensiamo a gara quattro, all’inizio tremebondo, 6-4 in 4 minuti, e al finale, quello dove la Dinamo ha perso 9 palloni per farsi riprendere e quasi bruciare la coda. Nessuno si sognerebbe di criticare i due generali, sono stati giocatori anche loro e sanno come si fulminano i circuiti interrompendo il legame cervello muscoli. Crampi di ogni genere. Comunque sia tutte e due hanno violato la casa dell’adorabile nemica, tutte e due hanno avuto eroi che sono spariti 48 ore dopo, trovando risorse nella rabbia, nella disperata ricerca dell’acqua da depredati, quella che obbliga molti a piangere perché alla fonte ti hanno portato, ma proibendoti di bere.

Certo queste associazioni brontolanti, quella dei giocatori, degli allenatori, quando si faranno sentire per il demenziale programma dei play off, ritmi che hanno piegato persino la ricca Milano, già sfinita dall’eurolega, o almeno così deve essere stato, certo una sorpresa per chi a settembre sapeva bene come stavano le cose e il peso dei calendari e degli avversari: altissimo in Europa, diciamo almeno per la metà delle partecipanti, medio alto in Italia. Ora questi legaioli ci diranno che alle povere società non arrivano aiuti concreti se non dalle due televisioni che hanno in mano i pacchetti. Vero, ma, accidenti, anche il più ottuso dei programmatori televisivi si sarà accorto che andare in concomitanza con altri avvenimenti sportivi di maggiore interesse è un suicidio da topolini scappati al naufragio. Le domeniche senza calcio, ciclismo, tennis, andavano sfruttate prima che la gente avesse altro da scegliere. Ci voleva poco e non lo diciamo rabbiosi da elemosinatori di spazi per ribattute notturne, anche se è davvero una vita infernale quella di far piacere uno sport che ami a chi ha già mille grane e deve scoprire ogni giorno uno che ti dice: adesso spiego cosa piace alla gente. Malattia del giornalismo frou frou, dei capi da champagnino con l’editore.

In questa ondata azzurra, possiamo capire il nervosismo di Petrucci, con il calcio che ha trovato il filone gioventù, il filone del movimento femminile, una scoperta dell’acqua calda visto che in America le università, le scuole avevano già spalancato le porte al movimento. Durante il mondiale perso dall’Italia ai rigori, l’Azzurra di Sacchi, eravamo spesso ospiti nella casa di Pacific Paliside di Rudy Bianchi, ex regista nelle giovanili Simmenthal, che aveva accettato di fare l’allenatore di calcio in una scuola, ragazzi e ragazze.

Dicevamo del fiume azzurro dei sogni e dei sospiri e dell’invidia perché tutto sta andando bene, la pallavolo, addirittura, con le nazionali di riserva. Un veleno mitigato solo un poco dalla promozione dell’Urania dei Cremascoli in A2, cosa che toglierà almeno il monopolio alla pallavolo nel nuovo Palalido già cittadella del volley che ha idee e non parlatori a pagamento. Almeno questa è la speranza. La stessa che avevamo in una calda sera milanese di giugno in via Salutati quando il sassofono di Charlie Yelverton, protetto dalla saggezza di Andrea Tosi, sorretto da un compagno di concerti davvero bravo, ha reso piacevole l’atterraggio di Cuck Jura in quella che è stata la sua città d’elezione in Italia e lui, contrariamente ai malnati di casa nostra, ricorda sempre con affetto il barone Sales ammettendo di essere diventato un giocatore migliore grazie alle ore in palestra, alle lunghe camminate e confessioni in via Monreale dove abitavamo in tanti di quel mondo. Charlie e la sua scelta di Italia per sempre, dopo le meraviglie sul campo, le notti col Menego e a casa Galleani, la vera famiglia quando in società si accoglieva, non si stava isolati a giudicare e invidiare. Yelverton e Jura? Cari legaioli ne avete di gente con questa classe nelle vostre scuderie?

Come dicono quelli di Mamma mia alla fine del loro musical: ne volete ancora di pagelle?

Ve le diamo, ma non è facile capire stando seduti, capire i giocatori, gli arbitri, gli stessi allenatori: roba da tribunale per la protezione della logica, nell’inferno per soddisfare tempistiche legate alla Nazionale, alle televisioni, al narcisismo di chi cambia giacca per dirci sempre le stesse banalità:

• SASSARI 7: bella partenza, tragico arrivo.

SPISSU 6,5 bravissimo fino a quando non ha pensato di esserlo anche troppo
SMITH 6: in fuga dalla sua Alcatraz mentale
CARTER 6,5: Tutta sostanza
MAGRO 6,5: un attimo, ma che attimo.
PIERRE 7: adesso riconosciamo l’uomo della Cheronea Armani.
GENTILE 5: guarda troppo oltre le righe
THOMAS 6,5: sfugge alle solite trappole, ma spesso si perde nella sua presunta immensità.
MC GEE6,5: freddo quando conta, ma sempre un po’ troppo fragile.
POLONARA 6: stanchezza, confusione, fatica. Lo capiamo.
COOLEY 7,5: fino alla perdita dei sensi per fatica un colosso, il vero totem.

• VENEZIA 6: non hanno pensato a ricopiare in bella il temone di gara tre.

STONE 6: ha le chiavi del regno scudetto, ma spesso le dimentica in macchina.
BRAMOS 5,5: non è lui, non può essere lui.
TONUT 5: torna a caricare a testa bassa, ma forse meritava più minuti.
DAYE 6: paura del toro per troppo tempo, prendersela con tutti, arbitri in testa gli ha fatto male. Bel finale.
DE NICOLAO 6,5: l’unico che aveva ancora veleno nella cerbottana.
VIDMAR 5,5: dà sempre tutto quello che ha. Spesso è troppo poco.
GIURI e MAZZOLA 5: dura vita da mediani
CERELLA 6: garra, un bel tiro, lui insomma.
WATT 5: mancino regale, ma anche purosangue ombroso che fa a spallate coi suoi fantasmi.
HAYNES 7: lama di Toledo per la sofferenza di Sassari che non aveva una coperta così lunga per arginarlo, fino a quando ci ha pensato la fatica.

 

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