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I sentieri di Cimbricus / Europei ovvero nostalgia canaglia

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Venerdì 27 Luglio 2018

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Una sbirciata a quando gli Europei avevano una propria irripetibile nobiltà. Poi venne il marketing e fu un'altra cosa.

 

di Giorgio Cimbrico

Ho sempre amato gli Europei. Prima che Nebiolo inventasse i Mondiali, erano il più grande appuntamento dopo i Giochi. Non è del tutto vero, insinua un implacabile suiveur, c’erano i campionati americani, c’erano i Giochi del Commonwealth. Sì, c’erano, ma quel che capitava venivamo a saperlo con un dolce e languido ritardo dopo aver estratto dalla busta Athletics Weekly o Miroir de l’Athletisme che arrivavano in cassetta proponendo sorprese e meraviglie quante ne erano celate nella caverna dei 40 ladroni.


Quel che capitava quando l’Europa si scontrava era visibile sulla RAI: bianco e nero e numeroni che tic tac scandivano il passar dei secondi. Uno dei primi ricordi è del ’62, della sera allo stadio del Partizan quando Tito Morale centrò lo Slam, corona europea e record mondiale. È l’occasione buona per un anticipo di auguri: a novembre il bel Tito farà 80 anni. Che abbia scelto il mare di Formia lo trasforma in una specie di re dei Feaci. Un patriarca omerico. Se leggerà questa roba, farà guizzare gli occhi in un’espressione divertita. “Ma guarda cosa va a cercare …”

Le maglie erano di lanetta, non idrorepellenti. Quelle dei russi, pardon dei sovietici, avevano sempre qualcosa di infeltrito e le ragazze non erano molto curate: qualche pelo di troppo sulle gambe, qualche ombra sulle guance e tra naso e bocca. I body-bikini non esistevano: maglia e mutande anche loro. C’erano delle costanti cromatiche, senza bizzarrie, senza mutazioni da un anno all’altro: russi e ceki in rosso, polacchi e finlandesi in bianco, tedeschi ovest con la fascia nero-giallo-rossa, tedeschi est in blu bordato bianco e fascio di grano con il martello e il compasso.

Venivano guardati e guardate con un misto di stupore, di sospetto. Ma erano proprio tedeschi? Chi si era cimentato nelle prime letture di Le Carrè, li chiamava i tedeschi venuti dal freddo. Erfurt, Zwickau, Karl Marx Stadt, Potsdam: i luoghi di un’altra Germania che iniziammo a conoscere leggendo i risultati come gli esperti scorrono i listini. Su LeichAthletik esisteva una rubrica Aus Ddr, dalla Ddr. Una miniera. Renate Stecher sembrava sempre su di peso, ma vinceva sempre.

A Helsinki ’71 saltarono le regole del fondo che scoprì di poter essere divertente in un gioco di accelerazioni, frenate, trappole. Era un agosto magro di sole, magro come Franco Arese che infilzò Szordikowski dopo aver stretto una leale alleanza con Brendan Foster e John Kirkbride. Qualcuno sostiene che Blanche (Tino Bianco) si commosse e lui da quasi mezzo secolo smentisce. Le lacrime non si addicono allo scettico.

A Roma, nel ’74, faceva un caldo infernale, tipo Cambogia, ma all’Olimpico c’era sempre un sacco di gente: migliaia di finlandesi, guidati da Juha Väätäinen, che di anni ne ha appena fatti 77, e che facevano oh oh oh quando lanciava Hannu Siitonen perhè il keihas, il giavellotto, andasse lontano. Immagini che si sovrappongono: l’ultimo urlo della battaglia di Marcello, il volto di pietra di Valeri Borzov che guarda in faccia uno a uno i finalisti dei 100 prima di impiombarli anche se in mano ha al massimo una doppia coppia, Pippo Cindolo che si ritrova sul podio e, dopo quella sauna, sembra un tronco prosciugato.

Una volta, a Hollywood, ricorrevano a un’immagine per far capire allo spettatore che il tempo passava: foglietti di calendario che volavano come foglie d’autunno. Quando gli Europei erano nobili, venivano ogni quattro anni, poi li hanno portati a due per motivi facilmente spiegabili, non condivisibili. Ma non importa. Al periodo dei quattro anni risalgono i momenti elettrizzanti e commoventi di Praga, Stoccarda e Spalato.

Freddo a Strahov, pioggia sottile al Neckarstadion, vento umido dall’Adriatico a S. Antonio di Poljud, sventrato dalle cannonate. Più che ricordi, sensazioni che scorrono come in un teatro delle ombre: Venanzio, Sara, Pietro, Mei-Cova-Antibo, Panetta il corsaro, Annarita Sidoti che ha avuto il suo monumento. Non era ancora venuto il moment del portatile e se le gare finivano tardi poteva capitare di dare una “braccia” ai dimafonisti. Sennò nella Lettera 32 si infilava un foglio che, prima della dettatura, veniva coperto di aggiunte, di correzioni, di intuizioni dell’ultimo momento. Nostalgia? Certo, non è mica una vergogna ammetterlo.

Ora, tra poco, Olympiastadion, un buon posto per risvegliare altre memorie. Fosse ancora vivo Arturo Maffei ne avrebbe da raccontare.

 

 

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