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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Grazie a Hicham tutto e' stato bello

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Martedì 17 Aprile 2018

el guerrouj 2

Il suo record è meravigliosamente contemporaneo, come erano la sua corsa e la volontà di lasciare segni indelebili.

di Giorgio Cimbrico

Prima della “pax marocchina” imposta da Hicham el Guerrouj, i 1500 sono stati un campo di battaglia, un incrociarsi di sfide, dirette o a distanza, per portare addosso, come una preziosa decorazione, il titolo di primatista del mondo (nella foto, la vittoria nei 1500 davanti a Bernard Legat; quattro giorni più tardi il bis olimpico nei 5000 su Kenenisa Bekele). Mai, nella storia dell’atletica, su una delle distanze considerate nobili (la più nobile, data la derivazione metrica dal miglio imperiale) è stato registrato un regno così lungo: dal 3’26”00 del 14 luglio 1998 – occasione e luogo, il Golden Gala all’Olimpico - sono passati quasi vent’anni, una ricorrenza che verrà felicemente superata. In una successione biblica, degna del Libro dei Re, Jim Ryun strappò lo scettro a Herb Elliott dopo sette anni (scarsi) e lo stesso intervallo di tempo passò prima che a impadronirsi del record fosse Filbert Bayi nell’indimenticabile corsa di Christchurch: anche John Walker sotto il limite e Ben Jipcho ad uguagliarlo.

Quel che avvenne tra il ’79 e l’85 ha il sapore di una guerriglia, fatta di colpi di mano: sette record di cinque primatisti diversi, Seb Coe, Steve Ovett, Sydney Maree, Steve Cram, Saïd Aouita. La gara delle gare è il faccia a faccia nizzardo del 16 luglio 1986 quando Cram e Aouita scesero sotto la barriera dei 3’30”. Said, detto il kaid di Kenitra, avrebbe limato 21 centesimi, 3’29”46, un mese dopo al Bislett di Oslo, aprendo un dominio destinato a superare, per 14 giorni, la durata delle sette stagioni piene, sino al 3’28”86 reatino di Noureddine Morceli, primo a scendere ne ’95 sotto i 3’28”, sulla stessa pista che aveva visto la sfida tra l’Airone di Gateshead e il nordafricano proteiforme, buono per tutte le distanze.

Dopo aver concesso quasi sei anni a Morceli, venne El Guerrouji e il suo record è sempre meravigliosamente contemporaneo, come meravigliose erano la sua corsa, la sua determinazione a non farsi abbattere dagli strali della sorte, la volontà di lasciare segni indelebili.

Il 14 luglio, l’abbattimento della Bastiglia dei 1500, iniziò alle 21: la corsa venne lanciata su ritmi formidabili dai kenyani Robert Kibet e Noah Ngeny che proprio su una pista italiana, a Rieti, di lì a poco più di un anno avrebbe abbattuto l’ispido record mondiale dei 1000 di Coe, con la prima e unica irruzione sotto i 2’12”. Dunque, Kibet 53”5, Ngeny 1’50”5 e 2’18”5, con vantaggio astronomico (quasi tre secondi) sullo split di Noureddine Morceli. Hicham seguiva, con armonioso giro di gambe, per prendere la testa ai 1200, passati in 2’46”4. A quel punto, nel derby maghrebino a distanza, conservava solo sette decimi di margine sull’algerino. In quei 300 finali, obbligato a un esasperato numero di giri, non perse il controllo, non abbandonò la sfera della bellezza. Ultimo tratto in 39”66 per un verdetto che non fu subito noto per qualche passeggera bizza del tabellone posto sulla linea del traguardo. Dopo qualche minuto venne ufficializzato in 3’26” spaccato: Morceli era stato lasciato indietro di un secondo molto abbondante.

Meno di un anno dopo, il 7 luglio 1999, Hicham tornò a Roma e aggiunse un’altra gemma alla corona: miglio in 3’43”13. Anche quello a tutt’oggi imbattuto, con la conferma che l’Olimpico è una cantina dove si conservano solo etichette di antico e grande pregio: i 2,09 di Stefka Kostadinova hanno superato i trent’anni. L’interrogativo è: arriveranno a trentuno sotto gli assalti di Maryia Kuchina-Lasitskene, caucasico del Kabardino-Balkaria?

La memoria conserva, a proposito di Hicham, attimi se possibile ancor più coinvolgenti. E la prima scelta cade sul giorno sivigliano del bollente agosto 1999: inizia al mattino quando la gente sfida il primo caldo, violento, africano, per mettersi in coda, comprare gli ultimi biglietti per la “corrida” promessa dalla serata. Vengono portati tendoni: a mezzogiorno, 40°. Aria immobile, secca. Ogni isola d’ombra, un’oasi. Al parcheggio dei taxi, vicino alla Cattedrale e all’Archivio delle Indie, autisti che sfogliano tabloid: Estevez, Cacho e Diaz, calati nelle vesti di luce dei toreri, impugnano spade e banderillas, Li attende un novillo (un giovane e agile toro) che viene dall’Africa del nord, non lontana in linea d’aria. A Siviglia la plaza de toros non è monumentale come a Barcellona, come a Madrid. È piccola, elegante, sempre ben rinfrescata a calce, e ha una cappella con la Vigen che promette aiuto a chi va a sfidar la sorte: non è noto se i tre matador, nel breve viaggio verso lo Stadio Olimpico della Cartuja, sulla vasta isola contornata dal Guadalquivir, si fermino per una preghiera, per una benedizione. Sulla tauromachia come metafora dell’esistenza Hemingway ha scritto “Un’estate pericolosa”: la triade di Spagna sa che quel che dovranno affrontare ricade in questa sfera. Incruenta ma definitiva.

Quando la salute e la sorte gli sono state al fianco, El Guerrouj ha saputo offrire una sintesi difficile da miscelare: calligrafia ed efficacia. Hicham non teme gli spagnoli, sa che si libererà presto dalle panie di un loro tentativo di gioco di squadra. Lui teme Noah Ngeny, il kenyano che aveva avuto una parte importante, come scanditore di ritmo nel 3’26”00 e che un anno dopo aveva finito per interpretare il ruolo di strenuo avversario nella rincorsa al miglio.

Le gare che consegnano titoli non vengono corse a rotta di collo ma ricadono nel repertorio della “drole de guerre”, della guerra non guerreggiata, destinata ad accendersi violenta soltanto al suono della campana. Siviglia è una meravigliosa eccezione: il ritmo alto diventa spietato sotto le spinte eleganti di Hicham che semina gli spagnoli ma, senza neppur girare ll capo all’indietro, sa, per il risuonar dei passi, che Ngeny è ancora lì, nella sua ombra. Ed è qui che viene confezionato il capolavoro dell’1’50”2 nell’800 finale, del 53”8 sull’ultima tornata. Il 3’27”65 vincente è, all’epoca, il quinto tempo della storia, il primo tuttora ottenuto in un giorno in cui era in palio un titolo globale. Ngeny cade da invitto in 3’28”73, Estevez salva l’onore nazionale e una medaglia poco al di là dei 3’30”.

La stessa combinazione di tattica, strategia e capacità di ritmo elevata ad arte saranno, cinque anni dopo, alla base dell’accoppiata ateniese, quando Bernard Lagat (non ancora americano) si rivelò duro a morire, quando Kenenisa Bekele venne costretto ad assistere al progressivo inumidimento della sua polvere da sparo. Hicham, l’uomo dei Mondiali, aveva con l’Olimpiade, più che un conto da saldare, un destino da scrivere: caduto ad Atlanta, nel momento dell’attacco di Morceli, tormentato da una salute malferma a Sydney (ne approfittò Ngeny), non poteva pensare di andarsene senza aver lasciato il segno. Ne lasciò due, con gli occhi gonfi di lacrime, e l’Equipe gli dedicò un’intera prima pagina con una foto che pare un quadro storico, una Ronda di Notte dell’atletica, e un titolo che sembrava banale ed era meraviglioso: “El Guerrouj c’est grand”. Come Allah. Ed è un personale motivo di orgoglio ricordare che quando Hicham annunciò di voler rincorrere la doppietta 1500-5000, toccò a me osservare che ottant’anni prima il tentativo era andato a buon fine quando in un paio d’ore Paavo Nurmi aveva scritto la storia. Hicham disse di non saperlo e ringraziò per l’informazione.   

Hicham ha dato l’addio nel 2006. Guida la storia dei 1500, del miglio e dei rari 2000, è stato l’unico, con 7’23”09, a insidiare il terrificante 7’20”67 reatino di Daniel Komen. Per quattro volte consecutive, ad Atene, Siviglia, Edmonton e Parigi, dal ’97 al 2003, è stato campione mondiale dei 1500 e ha raccolto anche due secondi posti: all’esordio, nel ’95, sui 1500, e sui 5000 allo Stade de France, nel 2003, dietro il giovanissimo Eliud Kipchoge, quando l’operazione Atene era giunta a un momento di prima, importante verifica.

Ma su tutte queste meraviglie cala un’ala d’ombra quando un vecchio ricordo si fa largo: è quello di un acerbo purosangue che scende sulla pista di Parigi-Bercy, Mondiali indoor ‘95, in una mattinata di batterie. “Magnifico ragazzo. Come si chiama?”. “Hicham El Guerrouj”. Nome che profumava di nobiltà, malgrado il padre fosse il gestore di una modesta trattoria a Berkane. Avrebbe occupato molti piacevoli e commossi giorni di chi osserva, annota e prova a condire con parole quanto gli viene offerto. Con Hicham, grazie a Hicham, tutto è stato facile e bello.

 

 

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