Antologia / "Addio Mennea, disperato volante"
Giovedì 3 Novembre 2016di STEFANO JACOMUZZI
(gfc) Nel salone d'Onore del CONI, nella serata di oggi, verrà consegnato l'ennesimo premio speciale alla memoria di Pietro Mennea. All'insegna di una santificazione che non trova altri precedenti nello sport italiano che, pure, di personalità intriganti, non manca proprio. Questa volta l'occasione è offerta dalla 18. edizione de "L'Amico Atletico", premio che intende rinvendire i valori dello sport dei nostri giorni: lealtà, amicizia, rispetto, impegno e solidarietà. Annunciati il presidente del CONI Malagò e, immancabile, il presidente della Camera Boldrini che a eventi del genere non si nega mai. Ci è parso così utile riproporre un intervento di Stefano Jacomuzzi - un grande intellettuale che a volte trovava opportuno rifugiarsi nello sport - che focalizza le qualità e i limiti del personaggio Mennea. Un intervento pubblicato il lontano 16 marzo 1981 sulla Gazzetta del Popolo, in occasione del primo "ritiro" della freccia di Barletta. Non so se questo datato articolo potrà riequilibrare il pensiero dominante su Mennea, ma c'è da augurarsi che trovi il tempo di leggerlo almeno Malagò.
Mennea se ne va. Se va dalla pista, ovviamente, ed entra nella vita, come ha detto lui stesso. Ci entra con il piede già lanciato, ed è persino giusto. No, giusto no, giustificato, diciamo. Perchè nella vita ci dovremmo entrare tutti con il medesimo slancio iniziale.
Mennea dunque se ne va dalla pista. Devo dimenticare oggi quelle sue strida isteriche dopo la corsa di Montreal e devo dimenticare tutti quei ditini alzati, che mi facevano ogni volta pensare alla favola di Hansel e Gretel, con la strega che ogni giorno controllava sul dito del bambino rinchiuso in gabbia il grado di ingrasso raggiunto e quello gli porgeva sempre una coscetta striminzita di pollo. Bisogna proprio che lo dimentichi quel ditino, perchè ogni volta che lo scorgevo alzarsi contro il cielo e verso le tribune (e le volte erano tante, tante, perchè Mennea vinceva sovente!) invocava davvero una strega che lo divorasse tutto, ditino e il resto che vi era attaccato ... Perfino la volata vittoriosa di Mosca è riuscito ad invelenirmi con quel nevrotico ditino alzato!
Bisogna che dimentichi tutto questo e altro, interviste, interventi, proteste, sempre fuori tempo, fuori tono, stridule, quasi sempre accusatorie, con l'aggiunta di un po' di razzismo alla rovescia, e con tanta esposizione di sacrifici. Per ricordare, invece, i cento metri di Mosca, quello sbilanciamento da ubriaco, quel vuoto pauroso denunciato fin dalla partenza, quell'arrivo intruppato, ingobbito da tutto il peso della vergogna. Lì, quel giorno, senza neppure un'occasione di alzare il dito, Mennea ha vinto la sua partita con la vita.
La corsa vittoriosa, l'apoteosi dei duecento gli era dovuta, poi, per qualcosa in più della forza dei suoi muscoli, della tenuta dei fasci nervosi: gli era dovuta per risarcimento di una sconfitta accettata finalmente senza mendicare scuse, amareggiata fors'anche dalla coscienza di tutti quei milioni (pochi o molti non so, ma sempre troppi) spesi intorno alla sue gambe, all'ossigenazione dei suoi polmoni, ai contorcimenti della sua psiche. Quella volta, sono convinto, fu deciso a vincere solo per sé - finalmente! -, non per lo sport, o per la bandiera o per il Sud, dal momento che a perdere sulla distanza breve era stato solo lui, non il Coni o la Fidal, o Nebiolo, o Vittori, o le privazioni infantili di povero figlio del Meridione.
E proprio lui mi ha dato ragione, ricordando nel congedarsi "quei duecento metri corsi da un disperato che, in quel momento, proprio non aveva altro da fare che vincere".
Non ho mai incontrato Mennea, meno che mai gli ho parlato. Ma resto convinto che quella sconfitta gli ha insegnato molto più di quanto lui stesso immagini. Perché da allora (e nonostante il successivo trionfo) la sua figura pubblica si è fatta più pensosa, più accorta perlomeno, il suo modo di esprimersi si è sciolto in frasi comprensibili e coerenti, persino la sua voce si è fatta più fonda, meno gridata e acuta. E anche adesso, andandosene, ha detto cose sensate, ha parlato di libri da leggere. Lunga vita a Mennea, perché ne possa leggere davvero molti. Vedrà, sono una buona compagnia e gli procureranno altri insospettati amici.
E mi dia retta, ringrazi in cuor suo quell'inglese Wells che nei cento metri lo ha mortificato, gli ha dato il colpo di frusta di cui aveva bisogno, la terribile esaltante lezione della sconfitta. Era anche un inglese quel George Herbert, poeta e prete, che qualche secolo prima aveva detto: "Bisogna perdere un verme per conquistare una trota". E Mennea adesso sa benissimo che la trota è qualcosa di più e più in là della vittoria olimpica.
< Prev | Next > |
---|