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I sentieri di Cimbricus / "Oggi non si fanno prigionieri"

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Venerdì 23 Febbraio 2024

 

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Tempo di Calcutta Cup: qualcuno l’ha chiamata il Graal del rugby ma è soltanto una bella e vecchia coppa, un po’ ammaccata, simbolo della rivalità tra due vicini tra cui, correggendo l’usuale formula, è corso molto sangue.

Giorgio Cimbrico

Domani, sabato 24 febbraio, a Murrayfield, tra cornamuse e sfoglie ripiene dell’haggis cantato da Robert Burns, poeta contadino, Scozia e Inghilterra giocano per la Calcutta Cup che di questi tempi è in mano scozzese come per secoli è stata in mani inglesi la pietra di Scone: qualcuno l’ha chiamata il Graal del rugby ma è soltanto una bella e vecchia coppa, il simbolo della rivalità tra due vicini tra cui, correggendo l’usuale formula, è corso molto sangue.

E che il futuro potrebbe dividere più di quanto le divida il confine che corre tra il Northumberland e i Borderers, rappresentato da un pietrone. Da una parte c’è inciso England; dall’altra, Scotland.

L’Inghilterra è avanti nelle vittorie, 71 a 43. Dalla parte della Rosa anche lunghi periodi di possesso o di mantenimento in caso di pareggio (13 edizioni, tra il ’51 e il ’63, 9 tra ‘91 e ‘99 e tra 2009 e 1017) e il record dei punti messi a segno da un giocatore: l’infallibile Jonny Wilkinson, così simile al giovane Enrico V, 27 punti. Ma dal 2018 in avanti, quattro successi dei blu con il cardo, due conquistati in territorio nemico, a Twickenham.

“La facciamo noi o vi inviamo i soldi e ci pensate voi?”. “Provvedete pure voi”. Nel 1877 non c’erano e-mail, solo lettere vergate su carta intestata: i tempi erano più lenti ma tutto rimaneva agli atti. Chi domandava è James Rothney, segretario del Calcutta Football Club; chi rispondeva, da Londra, è il segretario della Rugby Football Union. Rothney scrive che va bene, che affideranno il lavoro a un artigiano locale e che la somma che metteranno a disposizione equivale a 60 sterline, non poco a quel tempo.

Nel 1878 l’argentiere indiano ha finito il suo lavoro, la coppa è pronta ed è una bellezza, una specie di bicchierone con tre manici che sono cobra reali e un elefantino sul coperchio del boccale: è la Calcutta Cup, messa in palio ad ogni incontro annuale tra Scozia e Inghilterra, in ricordo del Calcutta Football Club che, dopo qualche stagione di successi e di partite frequentate dalla buona società britannica che aveva trovato radici nel Bengala e nel Raj, aveva registrato un rapido declino: il polo era più amato dagli ufficiali che arrivavano dalla patria e il cricket lo giocavano sia i militari che gli impiegati dell’Indian Civil Service e lo stavano imparando gli indigeni, con eccellente profitto. Senza contare che per il rugby il clima caldo umido di Calcutta era insostenibile. E così, dal momento che nelle casse sociali era rimasta quella somma in rupie d’argento, perché non sottoporle a fusione e lasciare un segno di sé?

Ora la Calcutta è conservata al Museo del Rugby di Twickenham ma per lunghi anni la settimana prima del match era esposta a Londra, in una gioielleria di Abermarle Street, elegante parallela dell’altrettanto elegante Bond Street, o in Princess Street, la strada principale di Edimburgo. La prima volta che venne messa in palio – 1879 – mentre le truppe di Vittoria stavano sistemando spiacevoli vicende legate all’insopprimibile orgoglio degli zulu – non prese la via della sede né della federazione inglese né di quella scozzese: all’Accademia di Edimburgo, in Raeburn Place, finì con un risultato raro: pari. In realtà è capitato in altre quindici occasioni.

La coppa, che affianca nel pantheon dello sport vittoriano Oxford-Cambridge di rugby (Varsity match) e di canottaggio (The Boat Race), ha avuto anche i suoi Erostrati: capitò nel 1988 quando, dopo banchetto e libagioni, Dean Richards inglese e John Jeffrey scozzese (detto lo Squalo Bianco) decisero di metter in scena un terzo tempo giocato, usando la Calcutta come palla ovale. Loro sospesi e coppa ammaccata. Capitò anche alla Coppa America, presa a martellate da un pazzo e restaurata, gratis, dagli argentieri Garrard che l’avevano fusa nel 1851 come Coppa delle Cento Ghinee. L’increscioso episodio ha consigliato di confinarla nel museo della Fortezza del Middlesex e di consegnare delle copie ai temporanei depositari.

Ancora una di fronte all’altra, con fatali rinvii al tempo delle battaglie tra Edoardo I, martello degli scozzesi, William Wallace e Robert the Bruce. Flower of Scotland, che narra di quegli epici e sanguinosi scontri vecchi sette secoli, venne riesumato proprio per un match di Calcutta e da quel momento ha sostituito il vecchio inno “Scotland the Brave”, considerato una marcetta per turisti. Quel giorno il capitano dei blu offerse le stesse parole dell’antico eroe che gli inglesi tagliarono a pezzi: “Oggi non si fanno prigionieri”. Non furono fatti prigionieri.

A Murrayfield, ondate di ricordi e di speranze di togliersi di dosso i vecchi padroni: il ponte di Stirling, l’avanzata dei clan sino a York, la gloriosa giornata di Bannockburn, Maria regina degli scozzesi decapitata, il Vecchio e il Giovane Pretendente, i giacobiti che sciamano sino a Derby per essere ricacciati a nord e massacrati dalla lunga linea rossa del Duca di Cumberland nella brughiera di Culloden More e tutte le battaglie della vecchia Calcutta. 

 

 

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