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I sentieri di Cimbricus / Quel simpatico smargiasso di Noah

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Venerdì 23 Febbraio 2024

 

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Un tempo si diceva “una storia di miseria e di riscatto”. Nel suo caso, di ambizione assoluta. “Punto ai record di Usain Bolt. Non ci riuscirò? Bene, proverò, proverò, proverò ancora”. Già l’anno scorso si era fatto stampare 19”10 dall’Adidas.


Giorgio Cimbrico

Ora Noah Lyles porta a un dito uno di quei barocchi anelli che toccano in sorte a chi vince il SuperBowl o il titolo NBA, così grande da coprirgli due dita. “Campioni del Mondo cosa?”, aveva detto il labbro di Gainesville dopo la campagna d’Ungheria ricordando, se era il caso, che in atletica gareggia il mondo e uno del Burkina Faso può diventare campione del mondo.

Qualcuno si è scandalizzato e ha parlato di lesa maestà delle grandi leghe, qualcuno ha convenuto che in effetti SuperBowl, NBA, World Series di baseball e di hockey su ghiaccio assegnano il titolo americano di corporazioni molto ricche, molto potenti. Il titolo del mondo è un’altra cosa.

Lyles ha esordito nel nuovo impianto indoor (o Short track, come da nuova etichetta voluta da World Athletics) di Boston, ha corso e vinto in 6”44, si è migliorato di 7 centesimi (tanti), su una distanza che in cui le sue doti di progressione possono esser soltanto intravviste negli ultimi trenta metri.

Usando quei parametri così amati dai suiveur dell’atletica può esser ipotizzato che 6”44 possa trasformarsi in un tempo sotto i 9”80. Il tempo di Noah è anche il record del meeting: era 6”45 di Maurice Greene, non uno qualsiasi. Ai Campionati USA di Albuquerque, New Mexico, ha fatto meglio, 6”43, lasciandosi alle spalle il primatista mondiale della distanza, Christian Coleman.

La partenza, più bassa, non è fulminea, ma tra i 10 e i 20 metri Noah sa trovare l’assetto e da quel momento ne ha 30 per scatenare la sua progressione. E’ significativo che sia a Boston, su Akeem Blake, che a Albuquerque, su Coleman, abbia vinto di un centesimo.

“Voglio tutte le medaglie”, aveva detto Noah al solerte intervistatore Lewis Johnson. E dopo, in conferenza stampa, aveva chiarito che la prima sarà quella dei Mondiali indoor di Glasgow che distano due settimane e che le altre saranno quelle in palio ai Giochi di Parigi: tre, forse quattro, se ci sarà bisogno di lui in una battagliata frazione di 4x400. Noah ha un personale ridicolo, 47”, ma chi corre i 200 in 19”31 e abitualmente attorno ai 19”50 può far meglio, molto meglio, un paio di secondi come minimo. Sarebbe un affascinante e nuovissimo poker. “Io sono pronto e posso assicurare che in seconda o terza frazione posso mettermi in caccia e correre in 43”.

Qualcuno dice che Noah sia guascone, smargiasso. Di certo c’è che oggi, con Armand Duplantis, riempie l’atletica. L’atteggiamento dipende da come a uno è andata la vita. Lui non ha passato un’infanzia e un’adolescenza felici e così ama profondamente sua madre, Keisha, per i sacrifici che ha dovuto sopportare per allevare lui e Josephus.

Un tempo si diceva “una storia di miseria e di riscatto”. Nel caso di Noah, di ambizione assoluta. “Punto ai record di Usain Bolt. Non ci riuscirò? Bene, proverò, proverò, proverò ancora”. Non è una novità che il primo obiettivo, da tempo, sia il 19”19 berlinese del Lampo, avviato verso il 15° anniversario. Già l’anno scorso Lyles si era fatto stampare 19”10 sulle scarpe Adidas.

Vuole lasciare il segno e in parte lo ha lasciato: tre titoli mondiali, un podio olimpico (che lo ha deluso), una frequenza sotto i 20” che non era così comune neppure per Usain il Grande. Pare abbia nel mirino anche il record mondiale della 4x200 che un quartetto giamaicano, senza Bolt, centrò a Nassau, Bahamas, dieci anni fa, in 1’18”63, media 19”66. Con lui, Bednarek, Knighton e magari Josephus si può fare.

 

 

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