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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Quelle dimenticate voci di dentro

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Martedì 21 Aprile 2020

aldo-giordani

 

Storie dei telecronisti d’una volta, uomini che sapevano maneggiare il microfono con stile, eleganza, autorevolezza. Senza l’isterismo o l’esibizione frenetica di se stessi. Un mondo perduto.

Giorgio Cimbrico

Un uccellino vestito da condor sostiene con dei cra-cra, che si tramutano in cinguettii, la supremazia dei telecronisti d’oggi su quelli di ieri. Non sono d’accordo e potrei snobisticamente andare alla fonte pura, fatta sgorgare, una settantina d’anni fa, da Bill McLaren che per molti di noi continua a identificarsi con il rugby avventuroso, disinvolto, allegro, picaresco che abbiamo amato. Bill portava con sé fasci di fogli, pacchi di foto e scendeva in campo per andare a scrutare i giocatori uno a uno, imprimersi nella mente un particolare, una silhouette, un tic, lo stesso espediente usato da Nicolò Carosio: normale per una generazione che non aveva il supporto di una legione di telecamere, di rallentato e super-rallentato (slomo, prego), l’alta definizione. E aveva quella “r” scozzese che gli inglesi prendono in giro e che nel suo pentagramma era una croma in più.

Bill, 53 anni dietro a un microfono, non era telecronista a tempo pieno e così non gli toccò in sorte la META di Gareth Edwards – Barbarians-All Blacks, Cardiff, 27 gennaio 1973 – finita nelle corde (vocali) di Cliff Morgan e c’è una spiegazione: si divideva tra la postazione e l’insegnamento dell’educazione fisica, ad Hawick, Lowlands scozzesi, dove ha cresciuto migliaia di ragazzi suggerendo che non c’era niente di meglio del rugby.

Quel giorno, il giorno della meta più bella della storia, aveva un impegno scolastico. Non resta che passare a voci e volti più consueti, più vicini a noi: il ricordo è legato al fascino che sapevano suscitare senza che sulle onde sbocciasse il ricciolo dell’isteria, dell’esibizione frenetica di dati inutili, della presa di potere personale su quello che veniva narrato, offerto. Non esisteva internet né esistevano quelle agenzie che oggi forniscono tonnellate di cifre, medie, percentuali, metri percorsi, passaggi effettuati, placcaggi “dominanti” o mancati, presenza in una parte del campo di gioco. Meno male. Esisteva sedersi, guardare, riferire.

Ricordo che Paolo Rosi, con l’aiuto del fido collaboratore Attilio Monetti, montava in postazione due cartoni da imballaggio su cui tempo e intemperie avevano lasciato dolorosi segni: su di essi erano appiccicati ritagli con i record, i migliori all time, mondiali e italiani, ed era tutto. Il resto poteva riassumersi non in una continua e martellante aggressione verbale ma in un bell’aggettivo, pescato in un repertorio elegante quanto il pigiama che impressionò il rugbysta rodigino che si trovò a dividere la stanza con Paolo.

Questi interpreti, questi amati spettri, avevano stile: quello che ne aveva in quantità così alta e densa da far pensare alla presenza di sangue blu, era Alberto Giubilo che con le sue puntuali genealogie permetteva all’immaginazione di intraprendere un viaggio in un mondo equino, cosparso, come in un quadro di George Stubbs, di corteggiamenti tra stalloni e giumente dai cui congiungimenti sarebbero nati puledri destinati a calpestare l’erba di Ascot o misurarsi con gli ostacoli di Cheltenham e di Merano, o con quelli spietati del Grand National.

Eleganza, stile, autorevolezza: in questo cocktail la forza del terzo ingrediente era la caratteristica di Aldo Giordani, depositario, al tempo, di una cultura nuova, dispensatore di un vocabolario che avrebbe potuto attingere a piene mani della lingua degli inventori del gioco ma che evitava di spingersi negli spazi sfrenati e grotteschi in uso oggi. (foto Wikipedia).

Una vecchia formazione, senza indicazione di schema e di ruoli, può contare su Carosio (finale di Coppa dei Campioni a Wembley 1963: “Rivera pesca Altafini, rete; ancora Rivera per Altafini, rete”, senza guaiti, urla scomposte, gol con due dozzine di ooooooo), Martellini, Pizzul (quando diceva “tutto molto bello” sembrava un grosso gatto felice), Ferretti padre e figlio, Ameri, Poltronieri, Provenzali (padrone degli alti e dei bassi, emissione da attore teatrale), l’immaginifico e rauco Ciotti, Dezan che commentò con interminabili singhiozzi l’ultimo giorno di Casartelli. Oddo che anche da anziano non aveva perso quell’aspetto di tenentino di prima nomina.

Voci che sono diventate voci di dentro. Come dicono al Tour, hors catègorie, fuori categoria.

 

 

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