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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / Alle fonti disseccate della memoria

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Sabato 22 Luglio 2017

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di Giorgio Cimbrico

Anni fa, uno storico della cultura scrisse che il cervello umano aveva esaurito la sua potenza creativa, quel che un filosofo chiamava lo slancio vitale. Si riferiva alla letteratura, alle arti plastiche, alla musica. Credo di poter esser d’accordo: la musica è morta con Richard Strauss, la pittura con Francis Bacon, la letteratura tira avanti: Roth, Coetzee e la povera Gordimer non hanno venduto come Dan Brown. Meno male. Un simile disseccamento delle vecchie fonti è stato subito da chi, come noi, ha vissuto, da appassionato voyeur vicende che ormai sprofondano in un tempo che tentiamo di trattare come argenteria di Sheffield, usando i migliori prodotti in commercio. Nel caso, qualche preziosa sostanza: la memoria, la capacità di non dimenticare, di non farsi travolgere dall’onda sporca di chi accusa questi indefessi conservatori a una certa propensione da robivecc.

Le idee più brillanti, di solito, vengono al primo e quasi incosciente risveglio o sono suggerite da particolari che, a tutta prima, possono apparire insignificanti. Nel mio caso, nasce dalla notizia del secondo 2,28 di Gian Marco Tamberi, sempre meglio avviato sulla strada che lo porterà a Londra. Mi son detto: ma 2,28 li ha saltati Valeri Brumel quando Tamberi, il padre, era un bambino.
Il resto è stato un effetto a catena, una valanga, la presa di coscienza di aver vissuto un’età dell’oro, popolata di campioni che non hanno più avuto l’uguale, che oggi potrebbero andare al National Stadium di Stratford, East End londinese, e lasciarlo con una medaglia: Jim Hines, Tommie Smith, Lee Evans, Dave Hemery, Viktor Saneyev, Randy Matson.

Da citare, naturalmente, c’è anche Bob Beamon che quel giorno volò anche troppo e finì con il diventare irreale. E comunque, prima di quell’atterraggio, il record del mondo era 8.35 di Ralph Boston e di Igor Ter Ovanesian e con una misura del genere sono state vinte almeno un paio d’Olimpiadi del nostro tempo. A Messico Michael Wenden, australiano, vinse i 100 e i 200 stile libero in 52”2 (record del mondo) e 1’55”2, tempi che oggi fanno sorridere o sono proposti in rassegne giovanili strettamente nazionali.

Non erano professionisti, a volte improvvisavano, come Smith che quando assaggiò il quarto di miglio corse in 44”5/44”8 ma, raccontò lui, “non avevo una gran pratica e il giro di pista era una faccenda dannatamente faticosa”. E forse pensò di avere deluso il suo coach Lloyd Winter che alla vigilia aveva detto: “Mah, non lo so, ma credo che Tommie possa correre in 42” alto, in 43” basso”. Forse esagerava ma guardate le foto di Tommie di allora e capirete l’iperbole. Rido quando qualche matematico ipotizza i limiti umani o i record del mondo nel 2050. Noi li abbiamo visti ed erano umanissimi.

E tutto questo succedeva cinquant’anni fa e sembra una chanson de geste come amava dire Paolino Rosi, ed era soltanto una dimensione di terribile bellezza, avrebbe detto William Butler Yeats, che riporta alle parole di un altro poeta, irlandese come lui: “Abbiamo avuto i nostri giorni”. Importante averli gustati sino in fondo, assaporati come suggeriva di fare il professor Keating dell’Attimo Fuggente che, in originale, ha un titolo molto diverso e che si adatta perfettamente a quanto ho provato a descrivere: La società dei poeti morti. Per noi, vecchi innamorati, vivissimi.  

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