Bersellini

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Eugenio BERSELLINI


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Il “sergente di ferro” se ne è andato a 81 anni. Eugenio Bersellini si è spento il 17 settembre in un ospedale di Prato, città dove viveva, per le complicanze di una polmonite (era nato a Borgo Val di Taro, nel parmense, il 10 giugno 1936). Giocatore, ma soprattutto allenatore. Allenatore di un “altro” calcio, si dice in questi casi. E non è chiaro se si fa torto a quello di allora o questo di oggi, oppresso da mancanza di tecnica individuale, interessi contrapposti e malati, strapotere dei procuratori e dello spettacolo a tutti i costi. (Nella foto, assieme ad Oriali e Giacinto Facchetti).

In quasi quarant'anni di carriera sulle panchine di tante squadre, Bersellini ha legato il suo nome soprattutto ai successi dell'Inter (che in squadra aveva Gabriele Oriali, Evaristo Beccalossi, Alessandro Altobelli, Ivano Bordon, Giuseppe Baresi) in un quinquennio a cavallo degli anni Ottanta - con lo scudetto vinto nel 1980 e due Coppe Italia, l'ultima nell'82 prima del congedo. E proprio in quel 1982 la sua Inter aveva fornito cinque giocatori alla nazionale campione del mondo. Tra loro figurava il difensore Giuseppe Bergomi, campione del mondo a 19 anni, dopo che Bersellini lo aveva lanciato in A a 16 anni e un mese, ammettendo che "uno così non l'ho mai allenato". Aveva visto giusto.

Conclusa la carriera di calciatore nel '68 al Lecce, Bersellini aveva iniziato nello stesso club quella da tecnico, in Serie C. Il debutto in A giunse con il neopromosso Cesena nel 1973, ma la prima "grande" fu appunto l'Inter del presidente Ivanoe Fraizzoli, che lo chiamò nel 1977 portandolo via alla Sampdoria. Rimase a Milano per cinque stagioni. In seguito guidò il Torino, di nuovo la Samp (con cui arrivò a vincere una terza Coppa Italia nell'85) e la Fiorentina. Nel 1999 si trasferì a Tripoli dove fino al 2001 fu CT della Libia. Ultima panchina nel 2006 alla Lavagnese, in Serie D, guidata ad una salvezza insperata.

Il soprannome di "sergente di ferro" se l’era guadagnato per i suoi metodi d'allenamento. Si ricorda che a volte faceva correre i suoi giocatori su un campo appena arato per rafforzarne le caviglie. "In realtà – ha ricordato “Spillo” Altobelli - credeva fortemente in quello che faceva, anche a costo di sbagliare. Oltre ad essere un grande tecnico, insisteva molto sulla preparazione atletica e all'epoca, in questo senso, fu un innovatore. Certo, c'erano anche ritiri dal venerdì fino alla metà della settimana successiva, ... ma per emergere servono sacrifici e questo è il più grande insegnamento che ci lascia".